Cacciari giunge, nel suo inquieto percorso, all’inno religioso. Un percorso allo specchio, in quanto Dante, “profeta laico, passato attraverso il confronto con l’aristotelismo radicale, l’agone politico, il più crudo disincanto, che alla fine trova nel quadro di un’escatologia religiosa nuova promessa, nuova forza di sperare”? Seppure ben presente a se stesso, alla “coscienza del reale”. Il doppio ritratto del titolo c’è, ma per dire che Dante nella “Commedia” e Giotto ad Assisi hanno tradito, uno meno l’altro più, il messaggio di Francesco: l’apoteosi della povertà, e anche l’immedesimazione nella natura, gli uccelli, l’acqua, il sole. La “figura viva della santità francescana”, humilitas, oboedientia, paupertas, hilaritas, di cui il saggio è la rivendicazione.
La genialità, dopo l’afflato, non difetta, benché sempre aggrovigliata. Nella restituzione poliedrica di Giotto, da tempo trascurato, giovane e affermato pittore, che studia da architetto e poeta. E nell’identificazione della Povertà di Francesco come affermazione del Regno. La Povertà come “energia agente: la forza che va all’amato, che scopre il volto nuovo dell’ente come dell’impossibile e indistruttibile”. La spoliazione come “kenosi divina”, l’autolimitazione luterana della divinità, e per questo tramite “l’aspetto femminile, materno, di questa santità, che il misticismo francescano esalta continuamente”. In un lampo proiettata sull’attualità: Rilke del “Libro delle ore”, Lukáks giovane, “Sulla povertà di spirito”, Heidegger, “Die Armut”, la povertà, a margine dei seminari su Hölderlin. E Nietzsche – poteva mancare? Nella figura del “mendicante volontario” che Zarathustra incontra dopo essersi “liberato” di Dio.
Massimo Cacciari, Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, Adelphi, pp. 86 € 7
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