È il monumento più visitato e fotografato, più del Colosseo. Forse perché è gratis, ma non solo. La piazza antistante è la più curata di Roma: il prato è perfetto, le aiuole rinnovate, a Natale ospita l’albero di Natale della città. I caffè che guardano il monumento, benché la piazza resti lo snodo maggiore del traffico, con rumori, polveri e puzze costanti, e le consumazioni costino il triplo, non hanno mai un tavolino libero, i turisti si estasiano alla visita. A lungo sono stati vuoti, una collocazione infelice, tra passanti di fretta e traffico invadente, fino a trent’anni fa, anche venti: ora sono una miniera, che il Vittoriano alimenta.
Il Vittoriano è il nuovo cuore di Roma. Il “santuario della terza Italia”, che fece la fortuna dell’architetto Sacconi, non altrimenti illustre, e delle cave dell’accecante botticino a Brescia, patria dell’onorevole Zanardelli. Che Arbasino “dipingeva” disgustato ancora nel 1985 nella rivista “FMR” di maggio: “Un salotto-zuppiera”, dagli “effetti ributtanti”. Monumento allo spreco, di soldi, politica (si dovettero fare due concorsi, Boito si dimise infine dalla commissione che ne seguiva la realizzazione per le troppe ingerenze della massoneria), idee. Circa trecento furono i partecipanti al primo concorso di idee, nel 1882, di cui Carlo Dossi poté fare due anni dopo, ne “I mattoidi”, un libro che non si ristampa, un censimento esilarante – il secondo concorso nel 1884, quello vinto da Sacconi, non andò evidentemente meglio.
Nell’unica riedizione dei “Mattoidi”, nel 1986, a cura del Mediocredito del Lazio di Gianfranco Imperatori, Federico Zeri anticipava lo sviluppo che non ha visto - lo avrebbe indignato - riportando gli esiti dei concorsi di idee alla nozione di kitsch. Ora desueta, forse perché trionfante. Di cui proponeva “un riesame”, agghiacciante per l’acutezza, e per la decadenza che prospetta come veleno inoculato dalla democrazia, in un corpo ancora giovane quale era l’Italia degli anni 1880: “È l’inevitabile prodotto, soprattutto figurativo (ma anche letterario, di moda e persino culinario) che scaturisce quando chi è nato ed educato entro i confini di una cultura subalterna (nel caso italiano, contadina) tenta di esprimersi secondo le norme della cultura dominante, assumendone gli aspetti epidermici, assorbendone miti e retorica, adeguandosi cioè ai valori di una Weltanschauung di cui gli sfuggono le radici, gli intimi significati, gli equilibri espressivi. Il Kitsch non esiste nei periodi di rigida definizione sociale e culturale: mi si citi un esempio per il Due e Trecento. Esiste invece, e prolifica, quando nuovi rapporti economici distruggono le barriere sociali”.
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