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Complotto – Borges immagina (“Il romanzo giallo”) un lettore di gialli alle prese col “Don Chisciotte”: il tutto vi diventa enigmatico e insieme paradigmatico, nel senso della colpevolezza, ogni parola o situazione. A partire dal narratore che non vuole ricordarsi il nome di quel villaggio della Mancia: non sarà lui il colpevole? E più ancora, dice Borges, in ambiente ristretto, la stanza chiusa della “Rue Morgue”.
Il giallo del giallo è in questa chiave, dell’occhio “ingiallito”: per la decadenza, la debolezza.
Doppio - La letteratura esclude, dice Schlegel. Dalla realtà? Il doppio, c’è quello snob, alla Dorian Gray, alla Tonio Kröger, narcisi incipriati, o può essere pauroso alla Stevenson, o ragionativo, alla Jean Paul, o inquietante alla Borges, ma sempre è inefficace, un dottor Watson qualsiasi, la spalla di comodo al varietà.
Epigramma - L’epigrammista twitterizza
anagrammando all’impazzata:
quando il mezzo è il messaggio
mette la mente a disagio
sopraffatta dall’urgenza
e dall’ubiqua interferenza
dell’affollata utenza
che la piazza in rete affolla
di concorrenti in acutezza.
Intercettazioni - Fanno il modello e lo stile di scrittura della parte buona (informativa, di richiamo) del giornale: politica, cronaca, economia, sport. E, per chi ancora legge, di una parte cospicua della saggistica e della narrativa: la storia politica, la morale (la filosofia), la giustizia, il giallo (politico, economico, sociale, mafioso-noir, giudiziario-procedurale). Lo stile questurino.
Intellettuale – I letterati suoi simili, gli intellettuali dell’epoca, Chamfort diceva “simili agli asini che scalciano o s’azzuffano davanti a una mangiatoia vuota”. Nizan, il compagno di liceo di Sartre “Non ci sono che gli intellettuali per fare buoni poliziotti”.
L’egemonia di Gramsci è la Führerschaft di Max Weber. Brutto vezzo intellettuale, da cui Hitler derivò il Führerprinzip.
Il monaco di Gargantua era sempre indaffarato. Poi, nei collegi dei gesuiti, fucina dell’intellettuale, s’impiantò il disprezzo per artigiani, operai, contadini. Mentre Primo Levi assicura, avendo visto il peggio di tutto: “Amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta della felicità sulla terra. La competenza è un’esperienza di libertà, la più accessibile e la più utile all’umanità”.
Se il letterato politico è il vero intellettuale, alla Zola, lo Zola di Heinrich Mann, allora letterato e intellettuale sono poca cosa, politicanti dilettanti. Di idee indigerite, per fini minuti che si magnificano ultimi, il posto, la recensione, il premio, l’egemonia di Platone. E serti d’ideali, rivoluzioni, resistenze, utopie, il mondo guardando dal baso – la politica è seria, la democrazia. Minutanti degli spacci della parola.
L’“impolitico” Thomas Mann che critica Heinrich e Zola ha ragione: l’intellettuale non sarà la “testa d’uovo” sterile del suo “fratello Hitler”, ma un politicante sì.
Anche quando fa parte di aristocrazie, anzi specie in questi casi, l’intellettuale finisce per rivangare luoghi comuni. Anche per “una certa mollezza di spirito e di cuore che egli contrae in mezzo al lungo e tranquillo uso di tanti beni”, dice Tocqueville confrontato dalla brusca democrazia Usa. Per cui “preferisce essere divertito piuttosto che scosso, vuol essere attratto ma non coinvolto”. Un groviglio, alla Epimenide cretese.
Thomas Mann è uno che quando ha ragione si arroga “un diritto d’infamia” intellettuale: “Odio la politica e la fede nella politica, perché essa fa l’uomo borioso, dottrinario, testardo, disumano”. Benché sappia che “la impoliticità è anch’essa politica”. È che “l’ironia come modestia, come scetticismo volto all’indietro, è una forma della morale, è etica personale, è «politica interna»”. L’intellettuale vi è senz’arte né parte, ohne Kunst ohne Gunst, potrebbe dire lo stesso Mann se parlasse maccheronico.
Hipster - C’è in Gregory Corso, figlio abbandonato alla nascita, dalla diciottenne madre beghina, che la strada fece inversa e se ne tornò in Italia, una definizione di hipster in rapporto a beat, il beato di Kerouac: hipster è terrestre, se non umano: “È amore e distacco, non voler essere ingannato, non ingannare”.
Kerouac – Derivava beat da beato, e lo voleva non bop, vecchio, agitato, ma cool, Lennie Tristano. Già visto. È stato il Jacques Querouaques della Vita agra, l’amabile I che ha cercato di maledirsi, e un altro Boris Vian, appassionato invece che ironico, e senza un Sartre che fa l’esistenza, col jazz notturno, le bevute, i me-lo-dico, gli anacoluti, i piccoli truffatori, le filosofie torrentizie dei poeti senza ispirazione, in Budda trasponendo Gesù, che i sodali ebrei non sopportano, ma sempre in croce, la frase frantumata adottando di Dostoevskij e i suoi cattivi che sono buoni, lo specchio scuro, del soggetto che si vede narrare, complice lo straniamento delle droghe, se da storditi si riesce a raccontarla, e le figure di Shakespeare – l’hobo autostoppista è un Amleto mistico e povero, che vaga tra sound e puttane.
È la forza dell’America. Che oblitera Pound. Eliot esilia a Londra. Joyce respinge alla dogana. Dopo aver sempre respinto caparbia Dante: nel 1860, quando fu infine tradotto, Harvard ne boicottò la pubblicazione, per essere il poeta indecoroso, medievale, scolastico, cattolico, e l’opera sconciamente una commedia. Ma i suoi autori, ladri, pugili, lavapiatti, sono iperletterati. Anche quando scrivono d’occasione, per il mercato, malinconici, quelli che ci hanno provato, Jack London, Hemingway, Melville, Plath, Sexton, e quelli che si negano nella droga, la misoginia, la misantropia, l’alcol, Poe, Dickinson, Henry James, Ginsberg, Kerouac. Sulla strada è ipercostruito, per riscritture evidenti, anche redazionali, forse per progetto: il mito della prosa spontanea si nutre con applicazione.
Traduzione – Il “Magazine Littéraire” di giugno, dedicato a Borges, vuole che lo scrittore argentino sbricioli “lo zoccolo su cui riposa la cultura occidentale: singolarità dell’autore, primato del testo originario”. Ma per costruirci sopra una singolarità e un primato più forti.
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