Il direttore dell’Istituto rumeno di Cultura, già docente di Fisica, fa un viaggio corroborante nei primi commentari di Dante, e più in quelli scientifici. A partire da Antonio Manetti nel Quattrocento, con Vellutello nel Cinquecento e il primissimo Galileo nel Seicento, per finire con i matematici contemporanei Mark Peterson, “Dante and the 3-sphere” e Robert Ossermann, “La poesia dell’universo”. Con alcune primizie per lo stanco dantismo italiano: le illustrazioni di Phoebe Anna Traquair, o gli studi danteschi della cosmologa Mary Ackworth Evershed Orr.
L’universo di Dante è quello che oggi si chiama una ipersfera. Dante non poteva saperlo, argomenta Patapievici, ma “lo sapeva”, e per questo fu subito studiato dagli scienziati: “Era un sapiente, e in quanto tale possedeva l’intera cultura scientifica, filosofica e teologica del suo tempo”. Con qualcosa in più, giacché il modello della cultura di Dante differisce da quello della cultura del suo tempo: “Dante non era probabilmente consapevole di questa differenza”, ma essa emerge, “metaforicamente e tecnicamente”, dai canti XXVII e XXVIII del “Paradiso”, in cui descrive la sua ascesa oltre il Nono Cielo.
Straordinario? Ma non casuale: l’immagine del mondo dell’uomo medievale gli era familiare, arguisce Patapievici, perché ci credeva, mentre l’immagine del mondo del nostro mondo, benché tanto più perfezionata e precisa, non è nostra: “È come se il nostro mondo, da quando noi ci siamo dimenticati di Dio, avesse cessato di avere un volto”.
Horia-Roman Patapievici, Gli occhi di Beatrice, Bruno Mondadori, pp. 100 ill., € 10
domenica 17 giugno 2012
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