Non hanno le stesse personalità, né le stesse incombenze istituzionali, ma toccherà al presidente islamico Morsi, una novità totale per l’Egitto moderno, muoversi nel sentiero già tracciato in Turchia, dopo quasi un secolo di laicismo, per l’islamico Erdogan: modernizzare l’islam, occidentalizzarlo. Nei due paesi più popolosi e di maggior peso nel Medio Oriente.
La prima prova per Morsi saranno gli accordi pace con Israele. Che dunque si farà confermare, nell’anonimato delle urne, da un plebiscito. Soluzione da tempo escogitata dal suo partito, i Fratelli Mussulmani, che hanno voglia di arricchirsi e non di fare guerre. La nomina a primo ministro di El Baradei sarà invece un’immediata manifestazione di buona volontà – di “pluralismo”. Ma, ammesso che El Baradei diventi primo ministro, lo sarà per poco. A meno che non si accontenti del ruolo di esecutore, che nella costituzione egiziana tocca al primo ministro nei confronti del presidente.
Il problema è che Morsi non è Erdogan, ma una seconda scelta. A un ruolo istituzionale accresciuto corrisponde una personalità più debole: è qui la maggiore differenza tra Morsi e Erdogan. Questi è capo del suo partito e sa orientarlo, componendone gli interessi in quelli più generali del paese. Morsi è debole politicamente e anche caratterialmente. È un sostituto del vero capo del partito, il miliardario Kheyrat El Shater, su cui i generali e gli altri milionari del post-nasserismo, dell’epoca mubarakiana, hanno posto il veto, e dovrà mediare.
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