Questo “Uccello” si voleva un capolavoro, oltre che un best-seller. Ma di che, rileggendolo dopo vent’anni? Forse dell’epoca, New Age, delicata lacrimazione di buoni sentimenti, politicamente corretti, per un futuro immacolato e radioso, tutto il Male essendo crollato. Volendo essere partecipi, è una letteratura – lo stesso vale per Baricco, Houellebecq – derivata dal minimalismo di Salinger, “Il giovane Holden”, “Franny and Zooey”, con la verbosità di Pychon, riadattata dal minimalismo in senso proprio, di Auster e Carver, nell’epoca incontinente del New Age.
Murakami dice che riscrive cinque e sei volte. In un anno – ogni anno un best-seller. Seicento pagine fitte? Sarà per questo che queste seicento pagine sono sconclusionate, tirate via.
Non è detto che sia successo, ma è come se il libro fosse stato strappato di mano all’autore, per uscire subito, per sfruttare un precedente successo. È una spiegazione. Restano da spiegare le critiche entusiaste. È la critica il vero problema all’età dell’Acquario (e oggi, è diverso?): uno potrebbe altrimenti passarci accanto senza danni.
Haruki Murakami, L’uccello che girava le viti del mondo
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