martedì 12 giugno 2012

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (131)

Giuseppe Leuzzi

Milano non sa fare l’Expo. Non può, gli interessi immobiliari sono inconciliabili. Ma la colpa è dell’Italia. Lo dice perfino l’onesto Pisapia.

Monti mediatore, tra Sarkozy e Merkel, tra Merkel e Obama, tra Hollande e Merkel, in favore della Bce, in favore della Spagna, mentre non si vede che abbia una qualche influenza, né un ruolo, può solo parlare, come ogni altro. Il presenzialismo e il mediazionismo, passioni che si intendevano meridionali, di Moro, Andreotti, De Mita, e come tali deprecate, sono invece lombarde. Come tali ora costituiscono titolo di merito: fanno parte della buona coscienza.
Si intendono il presenzialismo e il mediazionismo segni di non realismo. E invece sono un’accortezza molto politica (realistica), per mascherare la cose.

Nella lite continua, caratteristicamente napoletana, tra i due ex ministri dell’Interno Scotti e Mancino, la Procura antimafia di Palermo parteggia per il primo. Anche tra Brusca e Mancino la Procura antimafia di Palermo parteggia per il primo. Contro Mancino che è stato, oltre che ministro dell’Interno, anche presidente del Senato, rispettato. Antimafia? E dove bisogna cercarla?
È la stessa Procura che contro i carabinieri e il governo Ciampi produceva Ciancimino jr.

Sudismi\sadismi. “Speriamo che Angelo Marcello Cardani, indicato dal suo amico Mario Monti come presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ci metta una pezza, onori il nuovo incarico con indipendenza e cognizione. Fosse per i partiti, saremmo ancora fermi all’abbietta pratica della spartizione. E dire che, in proposito, la legge parla chiaro: i componenti di ciascuna Autorità sono scelti fra persone dotate di alta e riconosciuta professionalità e competenza nel settore. Prendiamo il caso di Francesco Posteraro, eletto all' Agcom, su indicazione dell’Udc di Pier Ferdinando Casini, lo smaliziato barcamenista del Terzo polo. Posteraro è un funzionario parlamentare di lungo corso, vicesegretario della Camera. Dal suo curriculum, consegnato all’ultimo istante, un minuto prima della nomina, si evince che le comunicazioni non sono sua materia (unico indizio: un figlio giornalista membro del Corecom della Calabria….”. Aldo Grasso, “Corriere della sera” di domenica 10, nella rubrica in prima pagina.
Grave colpa di Posteraro, essere calabrese. È infinitamente più qualificato del segretario di Monti eletto a professore, ma questo non conta.

La mafia come forma d’eccellenza del capitale
La mafia come proto capitalismo è tema vecchio. Politico, e anche filosofico – paradossale: mediato dalla “Favola delle api” di Mandeville, vizi privati pubbliche virtù, che Marx apprezzava, da Sombart e da von Mises. Ma non è del tutto sbagliato.
Napoli per esempio è ben più di san Gennaro. La mafia come forma d’eccellenza del capitale, a Napoli l’identità non è ideologica né paradossistica ma innegabile. Il maggiore distretto industriale e mercantile d’Italia e d’Europa, col record mondiale di società di capitali e individuali in rapporto agli abitanti, esemplare del morbo di Sisifo del capitale, necrofilo e anzi suicida, spregiatore dell’inutile virtù dell’accumulo. In forza della licenza totale.
Sono senza confronto le energie che si profondono nell’industria del crimine, nervose e materiali, l’inventiva, la logistica, l’innovazione, i finanziamenti, le continue sottili decisive perimetrazioni dei mercati. La capacità di valutare la redditività e il rischio, oltre che di individuare le tendenze. Partendo da condizioni sfavorite, immigrati isolati negli Usa o a Milano, villani a Palermo, cafoni a Napoli. E sono un capitale che a ogni vita si disperde. Se il capitale è un accumulatore, la mafia è la pila reversibile di Edison che si carica e si scarica, un lavoro che, senza perdersi, senza fine si disperde. Produce quei superprofitti che sono l’attrattiva del crimine: nella corruzione, l’usura, la droga, lo schiavismo, anche nelle feste di nozze e battesimo, si guadagna in modo superlativo. Incomparabile è l’organizzazione del mercato parallelo, di beni copiati o rubati, altrettanto dettagliato, se non di più, del mercato legale. Con filosofie manageriali flessibili, integrazione a stella, verticale, orizzontale, e monopoliste. E una rete d’incroci, marciapiedi, ponti, spiagge, uffici, stazioni, sottopassaggi, per un esercito di ambulanti clandestini, senza identità o senza licenza, tanto più difficili da occultare in quanto il magazzino si portano a spalla. Un mercato senza deposito e senza rese è il sogno di ogni mercante.
Se non che l’illegalità è minacciosa e ricattabile. È una fatica cui si sottostà non per il guadagno, sempre poco benché esentasse, ma per il bisogno di creare e distruggere in umbra, anche la propria vita – Schumpeter vi troverebbe di che rendere incontestabile la sua teoria dell’imprenditore come uomo del fare invece che sfruttatore. È un gioco d’azzardo, che si caratterizza all’uscita più che all’entrata. All’entrata il crimine economico va nel senso comune; è l’impresa dei nullatenenti, nel senso che la posta che si scommette è un po’ di carcere. Ma è all’uscita che si caratterizza, per il raddoppio continuo della posta che non può non finire in catastrofe. Che non è l’atto gratuito famoso degli animi sensibili di fine secolo, è l’accumulo gratuito: una filosofia e non un gesto di libertà. Con la dissipazione di altre energie: lo studio che la mimetizzazione richiede, l’abilità sempre rinnovata di essere un passo avanti al fisco, all’Inps, ai carabinieri.
Lo studio di Napoli più della Sicilia porta a questo. In Sicilia è urgente il bisogno di apparire, cui pure il mafioso soggiace: di dimostrare che si è – Vittorini se lo fa dire da Calvino: “Ha l’istinto delle scelte vitali, dei tanti siciliani diventati mila-nesi con entusiasmo”. Mentre Napoli va nel senso opposto, di cancellarsi. Il camorrista in sé non è niente, è spagnolo e significa litigioso. È diverso volerlo essere, non per carattere ma per scelta, industriarsi di esserlo.

Sicilia
Anche la Sicilia “è un’isola, addirittura ricca di antiche miniere di zolfo”, nota C. Schmitt, “Dialogo sul potere”, ma non ha prodotto alcuna rivoluzione industriale. Schmitt cita la Sicilia per sottolineare il mutamento dell’Inghilterra, l’isola della rivoluzione industriale, da terragna a marittima: “Fino al XVI secolo gli inglesi furono un popolo di pastori, che vendevano la loro lana nelle Fiandre, dove veniva trasformata in stoffa”. Poi, nel Cinque-Seicento, i pastori diventarono lupi di mare: “L’isola distolse lo sguardo dal continente e lo puntò sugli oceani: levò le ancore e diventò la dominatrice di un impero oceanico”.
La Sicilia è un’isola ch non è masi stata marinara – anche la Sardegna. Ribolle per una forma di compressione? Troppe energie (intelligenze, esperienze, immigrazioni) per uno spazio circoscritto.

“La regione più bella d’Italia e la più mortificata da uno Stato che si occupa solo di criminalizzarla”. Dice bene Sgarbi. Ma di uno Stato molto siciliano.

Lo Stretto di Messina è di bellezza consumante. D’estate e d’inverno. Di notte e di giorno. Ma ha avuto un solo poeta locale, tardivo, Stefano D’Arrigo. Mentre ha infiammato la fantasia del resto del mondo, a partire da Omero. È che Messina è città perduta? E la Calabria non sa urbanizzarsi.

Catania è città lavica, di pietra più di ogni altra sterile. E di scogli ciclopici. Che fermentano speculatori, anch’essi ciclopici, dall’antichità a oggi: Santo Mazzarino, Sgalambro, Giarrizzo, Salvatore S. Nigro. Tutti puntati sulla decadenza.

Sono immigrati in tanti in Sicilia, e vi sono restati con piacere, fenici, greci, romani, arabi, normanni, francesi, spagnoli. Non solo per il grano e il vino: vi si divertivano, filosofavano, poetavano, costruivano, s’imbellivano, abbellivano. Solo l’Italia vi si trova a disagio. I piemontesi non vi erano ancora sbarcati che già avevano inventato l’omertà e la questione meridionale.

leuzzi@antiit.eu

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