Giuseppe Leuzzi
Sicilia
Che il fallimento (default) dell’Italia cominci dalla Sicilia è da ridere. Ma i siciliani ne sono convinti. Che la Sicilia è in default. E che il default dell’isola coinvolgerà l’Italia.
L’isola è per gli isolani l’avanguardia o laboratorio dell’Italia: delle formule politiche, della corruttela (la “linea della palma” di Sciascia), della giustizia, della letteratura, e anche della lingua – perché no, ma nel Duecento. Non si può dire che la Sicilia non si diverta.
Ma questo accentua la grevità lombarda. Si prenda il default. Il “Corriere della sera” e il governo lombardo lo hanno subito dichiarato. Costringendosi poi a smentirsi, dopo la tirata d’orecchi di Napolitano al Quirinale, con l’altro lombardo Grilli, il plumbeo ministro dell’Economia. In un giochetto al massacro non senza irresponsabili conseguenze per l’Italia sui mercati.
Anche l’altro lombardo Formigoni ha irriso la Sicilia. Prestandosi ai facili sarcasmi su chi è più corrotto. Ma è vero che in questo “chiama-e-rispondi”, come si dice in toscano, è tutta la miseria dell’Italia, o quasi tutta..
Santo Meli Dumas lo ricorda ne “I garibaldini” sui venticinque anni, “biondo, con gli occhi azzurri, ben tagliato, di statura mediana”. Lo scrittore si era opposto alla sua fucilazione. Santo Meli era uno dei tanti insorti di Palermo che fecero poi la vittoria dei Mille, ma i borbonici lo accusavano di furto, e il garibaldino generale Stefano Turr voleva aveva deciso di fucilarlo per dare l’esempio. Su pressione di Dumas, decise poi di mandarlo alla Pilato dalle autorità siciliane, perché decidessero loro del “loro fratello”. E così Santo Meli fu fucilato.
Dumas trascrive una conversazione con “alcuni ufficiali” dei Mille. A proposito dell’incontro fra i popoli che la spedizione si proponeva. Gli ufficiali si vedevano parte di una razza “latina pura” Mentre i siciliani consideravano di razza latina ma mescolata coi “saraceni”. Non era un’osservazione innocua, prova ne sia che Dumas la riporta.
Dell’Utri non è simpatico. Ma “ogni volta che vengo qui”, dice, “penso di essere un’altra persona”. Qui a Palermo, la sua città.
Lo dice naturalmente da palermitano – come Epimenide cretese, quello secondo il quale tutti i cretesi erano bugiardi? Ma, purtroppo, dice la verità: nessun dramma a Palermo, solo commedie, con scambi di ruoli, per questo non c’è catarsi.
Dell’Utri indagato a Palermo per estorsione a Berlusconi non fa però ridere. Non “la Repubblica”. Francesco Merlo interminabile lo assoggetta alla dialettica “servi-padroni”. Da siciliano, benché di Parigi – e della famiglia ducale?
Palermo vuole, com’è noto, che sia lo Stato il mandante delle stragi del 1992 e del 1993. Ma lo Stato impersona in Dell’Utri.
Ma, poi, neppure lo Stato Palermo vuole reo. La città voleva sfruttare il ventennale delle stragi Falcone e Borsellino, come una qualsiasi soubrette, e c’è riuscita, sempre al proscenio. Ora ha un altro anno di celebrazioni, per le stragi del 1993 nel continente. Anche i morti servono a Palermo per divertirsi.
L’odio-di-sé
Marco Rovelli, ”Il contro in testa”, esordisce con un mea culpa: “Ho odiato la mia terra come si odia una madre secca e muta, una landa sterile e infeconda, un vuoto inabitabile e senza contorni. L’ho odiata perché mi appariva come un magma informe, impasto senza lievito. L’ho odiata perché non ne trovavo l’anima. L’ho odiata perché, man mano che mi conocevo, temevo che non sarei stato altro da lei”.
Tutto falso. Non c’è madre secca e muta. Le Apuane non sono sterili e infeconde - Rovelli narra di Massa e Carrara. E il vuoto non esiste. Sono proiezioni adolescenziali, il rifiuto di sé e del mondo - che tra l’atro qui non arricchiscono la memoria, benché Rovelli la improvvisi solerte e ora riconoscente. Ma sintetizza bene il rifiuto dell’emigrato, fisico e/o intellettuale. Dello sradicato. Che proietta sull’esterno le proprie insufficienze (rabbie) – “Non riuscivo a capire nemmeno me stesso, per la verità”, aggiunge lo stesso Rovelli.
Si deve a due storici recenziori e non italiani, Nelson Moe e Marta Petrusewicz, la segnalazione del ruolo dell’emigrazione politica del ’48, napoletana, palermitana, pugliese, nella reazione del “Sud”. Di luoghi e popolazioni immorali, inospitali, ingovernabili. Un rilievo in questo senso di De Sanctis, autore pure studiatissimo, già nel 1855 è stato recuperato solo da Moe - così come le lettere terribili di e a Cavour degli incaricati dell’unificazione a Napoli e Palermo. Lo stesso l’autoescluesone di De Sanctis nel 1860 dalla “Consorteria” che Cavour pose al governo di Napoli, guidata da Silvio Spaventa, capo della polizia durante la precedente luogotenenza Farini.
De Sanctis non era il solo, si comincia a sapere, a giudicare questi esuli prevenuti, con un pregiudizio più violento di quello dei cavourriani. Successivamente Benedetto Croce, di cui Spaventa era zio e tutore, denuncerà nel 1919, nel saggio “I Poerio”, un’opera riedita ora da Galasso, un moralismo ora “superiore, ma astrattamente superiore al paese in cui gli toccava di operare, ora estraneo e ignaro dei problemi reali di questo”.
Mafia & Antimafia
“Il gap di statualità che chiamiamo mafia”: Salvatore Lupo, storico della mafia ne fa questa illuminante sintesi in apertura a “L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile”:.
Una “parola nuova”, prosegue, postunitaria cioè, che “nasce da un’esigenza di legalità nuova”. Questo è meno persuasivo. La legalità è unica - non ce n’è mai stata la possibilità ma è da dubitare che ci possa essere una “legalità mafiosa”. E non è in progress, da uno stato meno legale e uno più legale.
L’onorevole Granata, ex neofascista, che la Commissione parlamentare antimafia concentra su Carrara, in fondo è uno logico: se la mafia ha conquistato il Nord, perché non l’antimafia? Da Carrara la vista è bella. E poi un mondo si apre, il mondo.
Chissà se l’ex ministro Romano è un mafioso. Non lo sapremo mai. Perché è stato indagato dalla Procura di Palermo. La quale prima ha proposto l’archiviazione, nel 2005. Poi l’ha riproposta nel 2009. E ora, nel 2012, sempre per i “fatti” del 2001, invece ha chiesto una condanna a otto anni. Ma otto anni per mafia non sono pochi?
Il giudice Nino Di Matteo, che voleva Romano condannato, lo ha detto “intraneo” alla mafia. Non solo la mafia a Palermo, anche l’antimafia si diverte.
A margine del processo a Romano, Felice Cavallaro deve arrabattarsi l’altro ieri sul “Corriere della sera” per farci capire che i cattedratici palermitani ex Pci, Giovanni Fiandaca e Costantino Visconti, già “consiglieri eccellenti di tutti i magistrati antimafia”, hanno con gli stessi “negli ultimi tempi spesso qualche corto circuito”. Il coraggio a Cavallaro non manca, e allora perché non ci dice di che si tratta? Mafia, antimafia?
Il giorno dell’assoluzione di Romano Fiandaca laureava con altissimi voti ed elogi Ida Cuffaro, figlia dell’ex presidente della Sicilia condannato per concorso esterno in associazione. La quale vuole fare il giudice.
Lo dice Dell’Utri ma è vero. Rispondendo lusingato a una giornalista di “Repubblica” - che dopo l’adescamento si occuperà di renderlo reo di ogni turpitudine nelle domande: “Quest’indagine nasce solo dall’annuncio della discesa in campo di Berlusconi. Mica penserà che è un caso, la solita coincidenza? Questo è un processo politico e c’è poco altro da aggiungere”. L’indagine è di Ingroia contro lo stesso Dell’Utri per estorsione a Berlusconi.
Qualcosa da aggiungere però ci sarebbe: è un processo non contro Berlusconi, non possono mica condannarlo, ma per la carriera politica di Ingroia.
Sulla mafia bisogna ricredersi. Era rozza e stolida, è furba e sofisticata.
Sudismi/sadismi. Montanelli a colloquio con Mario Castiello il 25 ottobre 1966 dà lo spunto a Andrea Cangini, “La Nazione” del 19 luglio, di dire che “sociologicamente parlando, la mafia siciliana sta alla politica italiana come la bramosia di potere sta alla natura umana”. Ma Castiello non era un sociologo: era l’ex capo della segreteria politica del senatore democristiano Merzagora, noto affarista. Divenuto in proprio, come consigliere di Stato, brasseur d’affaires. Era Castiello che nel 1974 prospettava a Montanelli i soldi dell’Eni, di cui era diventato consulente, per finanziare “Il Giornale” - prima che s’intromettesse Berlusconi.
Poi Cangini s’allarga. Cita un imprecisato “Dizionario di politica”, secondo il quale “più o meno tutta la classe politica liberale vanta legami con la mafia”. E sir Rennel O’Rodd, che sovrintendeva all’Amgot, l’amministrazione alleata nel 1943-45, cui fa dire che “le scelte finivano per cadere in molti casi sul locale boss mafioso o su un suo uomo-ombra” per fare il sindaco. Mentre O’Rodd ha scritto, nella prefazione al libro di G.R. Gayre, “Italy in transition”, 1946, un po’ confusionariamente: “La maggioranza dei comuni era lacerata da gelosie personali e faide e aveva enormi difficoltà a proporre dei nomi. Di fronte al popolo che tumultuava perché fossero rimossi i podestà fascisti, molti dei miei ufficiali caddero nella trappola di scegliere in sostituzione i primi nomi che venivano proposti oppure seguire il consiglio d’interpreti che si erano accodati avendo imparato un po’ d’inglese negli Stati Uniti. I risultati non erano sempre felici, le scelte finivano per cadere in molti casi sul locale boss mafioso o su un uomo-ombra il quale in uno o due casi era cresciuto in ambienti di gangster americani”.
Ma non è finita, ci sono ancora Cossiga e Panebianco. Quest’ultimo per aver chiesto il commissariamento del Sud – ma l’avevano chiesto anche Bobbio e Galli della Loggia. L’ex presidente della Repubblica per aver detto che la mafia “è parte del tessuto sociale e culturale del popolo siciliano, come la ‘ndrangheta lo è di quello calabrese e la camorra di quello napoletano”.
leuzzi@antiit.eu
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