Giuseppe Leuzzi
L’Italia è usuraia, questo il “messaggio” del “Gattopardo”: l’unità è una cambiale, che il Sud ha firmato e deve pagare.
Salina-Lampedusa argomenta nel “Gattopardo” al piemontese Chevallais “l’impenetrabilità meridionale agli affari altrui”. Dove viveva Lampedusa?
Schengen (la libera circolazione nella Ue) consente di divorziare in pochi mesi. Basta prendere la residenza in un paese che ha una procedura rapida, e farci poche pratiche legali. Agenzie specializzate vi si dedicano. Le più efficienti sono di Concetta Riina, la figlia, specializzata su Londra, e l’avvocato Richichi di Reggio Calabria, specializzato su Bucarest. Concetta prende 7.500 euro, l’avvocato Richichi 3.500 “più Iva”.
Il Sud fu attivo, anche molto attivo, anche prima degli altri, nel 1848 per la libertà e, in varia misura, l’unità. Senza mai un tradimento o una defezione (come avvenne invece al Centro-Nord), noterà sorpreso lo stesso Garibaldi nelle “Memorie”. Se non quella, eccezionale, dei liberali napoletani del 1820, Carlo Filangieri, Pietro Calà Ulloa, Giustino Fortunato nonno, che ispirarono e diressero la reazione borbonica del 1848.
Calabria
Il repubblicano Albero Mario, uno dei primi garibaldini sbarcati sul continente nel 1860, così ricorda i patrioti locali (in “La camicia rossa”, recentemente riedito), “in brache corte a similitudine del nostro pastore”, armati di fucili da caccia, pistole a pietra e coltelli: “Parevami che la vetustissima stirpe della Magna Grecia si fosse in costoro mantenuta nella sua primitiva integrità”. Differentissima dalla siciliana: “Se nella calabrese si addita l’innesto greco sul tronco italico, nella siciliana vi si discerne l’innesto africano”. Due genti estraene, “due mondi”.
Ha una storia ininterrotta di ribellioni. Contro Napoli in epoca moderna. Per i motivi più diversi. Ma indomita. Ora è coartata dalla ‘ndrangheta. Da cinquant’anni ormai. Troppi. Ma nella Repubblica non può ribellarsi, deve andare dai carabinieri. E questo fa la differenza.
Mezza pagina finale nel lungo romanzo d’amore di William Blacker per gli zingari e la Romania, “Lungo la via incantata”, è dedicata all’emigrazione improvvisa dopo la libertà e la democrazia. E tutta centrata sulla Calabria, bersaglio comodo per dire insensata la rottura di una stabilità di millenni – non è vero ma questo è quello che Blacker riesce a farci credere nella sua bella storia. C’è chi ritornò vantandosi: “Una tornò da una cittadina vicino Reggio Calabria per raccontare come aveva preso il caffè ogni mattina con Leonardo Di Caprio”. Mentre “altri tornarono dal grande mondo vuoto e dissero la verità”. Il racconto è uno solo: “«Abbiamo lavorato un mese in Calabria a potare gli ulivi», uno mi disse, «e alla fine l’uomo disse che non avevamo fatto un buon lavoro e ci ha pagati dieci euro al giorno invece dei cinquanta promessi. Non ci fu niente da fare. Tutti hanno armi in Calabria. Mentre eravamo lì sapemmo di romeni scomparsi. Nessuno seppe cosa gli era successo. Sentimmo una volta di un Romeno che era stato ucciso perché un Calabrese si era invaghito di sua moglie. Il Romeno reagì e il Calabrese pronto lo uccise, e buttò il suo corpo al mare»”.
Tutto è possibile. Di Caprio in Calabria non risulta ci sia mai stato, ma a Taurianova vive una contessa Lo Schiavo, sorella di Francesca Lo Schiavo, costumista e scenografa a Hollywood, anche di Di Caprio. Dei fatti truci invece si sarebbe saputo nelle cronache - mentre i potatori sarebbero stati protetti da una qualsiasi camera del lavoro. Tutto è più plausibilmente inventato, di testa. Senza difficoltà, perché quella è la “Calabria”.
È sconosciuta a Lampedusa, l’autore del “Gattopardo”, che pure dovette percorrerla più volte da cima a fondo nei suoi frequenti viaggi. Nel 1883 fa fare al Gattopardo in treno da Napoli a Reggio “nel suo ultimo tratto vicino a Reggio… una larga svolta per Metaponto”. Metaponto dista da Reggio come Napoli.
Una coincidenza ha voluto che si visitassero en touriste Santo Stefano di Sessanio sopra l’Aquila, Rocca Calascio, Castel del Monte. Un mondo morto – a Santo Stefano, con tutta la sua storia, si sono incontrate due donne, sole. In attesa dei gitanti del sabato, e del mese di agosto. E subito dopo, nell’Alto Jonio cosentino, una serie di paesi abitati, e anzi in forte crescita, demografica e economica, che presentavano la stessa struttura dei paesi abbandonati dell’aquilano: Rocca Imperiale, Oriolo, Roseto Capo Spulico, Amendolara, Trebisacce, Cerchiara. Costruiti su burroni e i crinali dei colli, per le vecchie ragioni di sicurezza, che li rendono oggi impervi all’irrinunciabile circolazione. Ma tutti vivi, oltre che di fascino, di attività sociali e culturali locali, delle popolazioni che li abitano. Senza però, a differenza dei borghi caratteristici dell’aquilano, alcuna fama o pubblicità.
Si dice la storia. Santo Stefano di Sessanio fu feudo dei Piccolomini e dei Medici, e vanta stemmi, se non palazzi. Ma Rocca Imperiale pure, ha un castello di Federico II e non ce ne sono molti in giro. Più tanti palazzi, borghesi ma solidi. Altri castelli adornano la costa. Capo Spulico vanta pure un’oasi marina. La storia si può dire che non c’è, in questi paesoni, perché c’è vita. Ma questa vita è poi la stessa che i calabresi stigmatizzano – non sempre emigrati. La buona coscienza di sé è museale?
A Rocca Imperiale un quartiere è detto dei padovani, sono stati i primi. Un altro dei bergamaschi. Non sono quartieri storici, ma gruppi di case acquistate di recente. A poco prezzo, quasi niente. Ristrutturate, poco, il necessario – bisogna rispettare l’ambiente. A costi limitati, il costo della vita in questi paesi è la metà che in Abruzzo. Per una vacanza comoda, tra le montagne e il mare, per qualche anno. Dopodiché un’altra occasione così propizia, di bella vita e buoni affari, emergerà e l’immobile si può rivendere a ottimo prezzo. Magari agli stessi calabresi ora occupati a grattarsi la rogna. Gli ultimi acquartierati sono di Abbiategrasso.
Mafia
La cosa e la parola nascono in Sicilia, anzi propriamente a Palermo, con l’unità.
L’omertà non nasce in caserma. I Carabinieri ne fanno un uso smodato, ma il conio si deve a Nicola Turrisi Colonna, barone palermitano, grande proprietario, grande liberale, ufficiale della Guardia Nazionale nel 1848, comandante della stessa nel 1860, uno dei promotori della sollevazione di Palermo nel maggio del 1860. Turrisi Colonna la chiama “umiltà” (voce trasposta nel dialettale omertà) in un opuscolo del 1864, “Cenni sullo stato attuale della sicurezza pubblica in Sicilia”: “Umiltà comporta rispetto e devozione alla setta ed obbligo di guardarsi da qualunque atto che può nuocere direttamente o indirettamente agli affiliati”.
Lo stesso i riti di iniziazione – ammesso che non siano una propalazione apocrifa di questa stagione dell’antimafia (la “rivelazione dei riti” avviene con oltre un secolo di ritardo, negli anni 1970, quando già la criminalità organizzata era internazionale e globale). Che ricalcano i rituali massoni e carbonari dell’indipendenza.
La parola mafia è menzionata per la prima volta nel 1861, in una commedia dialettale che ebbe molto successo a Palermo, “I mafiosi di la Vicaria”, di Giuseppe Rizzotti. Viene utilizzate come consorteria criminale per la prima volta quattro anni dopo, in un rapporto al ministro dell’Interno del prefetto di Palermo Filippo Gualtieri. Il prefetto ne parla come di “un’associazione malandrinesca”, con agganci nella politica. L’anno prima Turrisi Colonna ne aveva descritto il funzionamento, senza però usare ancora la parola (parla di “setta”, “camorra”, “infamia” e “umiltà”). Pochi anni dopo, nel 1876, Franchetti e Sonnino ne possono parlare come di “un’industria della violenza”, organizzata in “un vasto raggruppamento di persone d’ogni grado… unite per promuovere il reciproco interesse, astrazione fatta da qualunque considerazione di legge, di giustizia e di ordine pubblico”.
Le origini della parola si vogliono incerte – mitiche. La filologia siciliana comunque se le ascrive: il vocabolario siciliano del Traina registra la parola già nel 1868, nel significato manzoniano di “braveria”, per Pitré significa “baldezza”. Le origini reali sono nell’unità: nel toscano “maffia” (grafia prevalente della parola per quasi un secolo), miseria, e nel piemontese “mafiun”, persona rustica, deforme, mutangola.
luzzi@antiit.eu
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