Nel declino di Firenze, estetico (sembra impossibile…), demografico ed economico, la cultura è quella che regredisce più rapidamente. Le case editrici e i caffè letterari sono d’anteguerra, il rinnovamento lapiriano degli anni 1950 si è esaurito, il Festival dei Popoli, il Maggio Musicale, lo stesso Comunale, che ha difficoltà a fare la stagione, l’università è in declino. I centri di eccellenza, Architettura, Lettere, Scienze Politiche, hanno perso smalto e autorevolezza. Le iscrizioni sono in calo: l’ateneo fiorentino puntava ai sessantamila iscritti a fine millennio, ne ha avuti 49.700 nel 2011-2012, un venti per cento in meno. Per effetto dell’impoverimento della città e della sua minore attrattiva: il calo degli iscritti è proporzionalmente analogo ogni anno per i toscani e i non toscani.
L’impoverimento culturale è un fenomeno che tocca tutta la Toscana - non ci sono altrove università che perdono iscritti. Anche Siena è in calo, in proporzione maggiore che a Firenze: da 23 mila iscritti è scesa a 18 mila. Mentre Pisa, che nell’ultimo anno accademico ha preso a Firenze il titolo di maggiore università toscana, mantenendosi poco sopra i 50 mila iscritti, non li incrementa e anzi ne perde ogni anno qualche decina. A Pisa va peraltro il record in questi anni Duemila, che prima era anch’esso di Firenze, degli iscritti da fuori regione, che sono una sicura risorsa economica: ora stabilmente sopra le 16 mila unità, mentre Firenze è scesa a 9.500.
Un dibattito aperto dall’eccellente “Corriere Fiorentino”, il supplemento locale del “Corriere della sera”, sul “Cesare Alfieri”, l’Istituto di Scienze Politiche, ha involontariamente confermato l’involuzione. Paolo Ermini, il direttore del supplemento, voleva una rievocazione nostalgica dei “vecchi tempi”, col celebre bidello Alfio che faceva da segretario organizzativo e didattico, e da tutor degli studenti. Limitandosi a segnalare che l’Istituto non formava più i diplomatici. Preside e professori hanno reagito con una povertà sconcertante di argomenti – i panni sporchi si lavano in casa, e simili. Che Giovanni Faleg, un ricercatore fiorentino esiliatosi a Londra, alla London School of Economics, poteva mettere ieri alla berlina. L’istituto era al tempo di Alfio sicuramente di eccellenza, fino appunto al bidello. “Al tempo di Alfio”, cioè cinquant’anni fa. Allora, si può pensare, era facile, non c’erano altre facoltà di Scienze Politiche, solo un corso di laurea a Roma. Ma l’Istituto fiorentino aveva, benché “monopolistico”, orientamenti e organizzazione di elevata innovazione e efficienza. Introduzioni propedeutiche agli insegnamenti, un’emeroteca internazionale vastissima e accessibilissima, una Scuola Parlamentare finanziata dall’Istituto e gestita dagli studenti per autonomi cicli di conferenze e seminari, un insegnamento scandito da esercitazioni e seminari con gli studenti, fra i tanti altri espedienti per indurre alla frequenza che allora non si poteva imporre, la disponibilità costante dei cattedratici, con la mediazione degli assistenti, un corpo insegnante onusto di eccellenze – l’epigono è Sartori. Una facoltà d’impianto liberalsocialista, che invitava il comunista Duverger a spiegare la costituzione gollista. O il paretiano Meynaud a spiegare i “gruppi d’interesse”.
Ora Scienze politiche è, come tutto l’ateneo, un esamificio. Relegato in periferia a un incrocio polveroso di autostrade, dove è spiacevole pure recarsi a lezione. Studenti di fuori città e docenti sono costretti ad abitare in questo incrocio polveroso, e chi può se ne scappa.
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