Osama e l’11 settembre hanno steso come una barriera tra gli Stati Uniti e l’islam, che invece non c’è. Da oltre mezzo secolo, dalla guerra di Suez nell’autunno del 1956, gli Stati Uniti hanno favorito il nazionalismo arabo, e in questa cornice, a partire dagli anni Settanta, l’islam. Nella cornice inizialmente della guerra fredda, in funzione anticomunista e antisovietica. Poi, caduto il Muro, a corroboramento delle dinastie della penisola del petrolio, Arabia Saudita, Kuwait, Emirati, Qatar, Mascate, Bahrein.
Questo legame costante con un certo radicalismo arabo o islamico gli Usa hanno coniugato con la difesa senza tentennamenti di Israele. Ciò ne connota la sicura visione imperiale delle relazioni internazionali. Ma avviene nel distinto presupposto che il radicalismo, entro limiti, impedisce o allontana la modernizzazione del mondo arabo, e quindi, negli affari internazionali, la sua autonomia. Negli affari politici come in quelle economici – energia, tecnologie, uso dei petrodollari.
Nella cosiddetta primavera araba gli Usa hanno favorito, e continuano a favorire ora in Siria, i gruppi islamici. Ostentatamente anche, con i propri servizi di spionaggio e informazione (e con quelli britannici), e con i finanziamenti e gli armamenti forniti dal regime saudita. L’indigamento dei movimenti arabi di piazza verso regimi islamici appare ai più un’estensione del modulo iraniano. Dove il regime khomeinista ha dirottato la pretesa imperiale dell’Iran a potenza dominante nella regione, la sesta (o quinta, o quarta) potenza militare del mondo, una sorta di Turchia contemporanea ricca di petrolio e di gas, a un corpaccione inerte ai bordi del Terzo mondo manesco e povero, tra una Corea del Nord e un Afghanistan.
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