Ernst Jünger, Maxima-Minima, Guanda, pp. 123 € 12
lunedì 16 luglio 2012
Il conservatore è rivoluzionario
“Camminare a piedi diventa un problema tecnico” (p.23): l’autopsia del nostro reale non ha bisogno di strumentazione sofisticata, basta guardarsi attorno – sapendo, e volendo, guardare. Anche se “la metafisica deve diventare un lusso, laddove il pensiero è diventato un lavoro” (p.44). L’avvio folgorante è stato anch’esso semplice (p.11): “Il destino si nasconde in ciò che non si può sapere. Ecco perché le prognosi migliori sono quelle di cui l’autore stesso, a posteriori, si stupisce”.
Jünger si stupisce qui, con noi, della rilettura del suo “L’Operaio” trent’anni dopo, nel 1962, di cui questa raccolta reca le note a margine. Cristallinamente rese da Alessandra Iadicicco - anche se con la (inevitabile?) ambigua traduzione di Gestalt con forma – si apprezzano centellinate. La scrittura frammentaria di Jünger non è neppure qui aforistica (suggestiva) ma densa – ripensata: precisazioni che crescono su se stesse. Alla luce dell’aforisma heideggeriano che la curatrice evoca: “L’essenza della tecnica non è nulla di tecnico” – “L’operaio” è il mondo tecnicizzato. In un mondo costantemente mitico, dei Titani vs. Eracle in primo luogo, delle Moire, della Pizia, e ovunque di Gea, la grande madre Terra.
È il taccuino di un pervicace conservatore, ancora nel 1964, anno di pubblicazione della raccolta – l’anno dopo “Tipi, nomi, forme”. Negandosi nel mentre che si riafferma (p.101): “Il conservatore, ammesso che esistano ancora forze degne di questo nome, assomiglia a qualcuno che, su un veicolo che sfreccia via sempre più velocemente, vuole fare ordine, mantenere le cose al solito posto”. Ciò non va bene: “Gli oggetti tenuti fermi artificiosamente rappresentano un pericolo crescente”. Ma sono “museali”, con gli Stati nazionali, “le idee generali” della rivoluzione francese. Con residui di razzismo anche dopo le indipendenze. Mediante l’espansione di un cenno avventato di Spengler nel “Tramonto dell’Occidente”, dove profetizza la fine del colonialismo negli anni 1950-60 come l’africanizzazione dell’Europa – dei bianchi. Ma con l’occhio di falco vigile. Sulle dittature: “Tra il clown e il dittatore vi è un parentela, un sistema di prestiti reciproci”, questi “liquida uomini e classi”, quello, “in alcune circostanze, liquida un’epoca intera”. Sull’ “operaio” (p.21): “L’operaio combatte e muore dentro apparecchiature, non solo senza avere «idee elevate», ma avendole consapevolmente rifiutate. Il suo ethos sta tutto nell’onesto servizio dell’apparato”. Sul filisteismo, come “mancanza di senso metafisico, quantificabilità, formazione di gruppi e ricezione di compiti”. Di cui è culmine la Bomba: “La bomba atomica come non plus ultra della mentalità del filisteo”. Una serie di temi che sarebbero confluiti nel “rifiuto del lavoro” del Sessantotto. Sempre antiborghese. E sempre – non controvoglia – pieno di speranza. Sia pure per mera curiosità, da entomologo.
Con le stesse antenne sensibili avverte (soffre) le sopraffazioni della scienza e della tecnica, uno spreco mai visto: “Un lusso supremo, più dispendioso dei castelli di un’intera dinastia e più pericolose delle guerre tra i regnanti” (p.42). E avverte i limiti sempre più cogenti del reale (materiale): “A che cosa servono i punti di osservazione quando sta venendo giù una slavina?” (p.50) Cosciente del suo limite sempre: “L’autentico conservatore non vuole mantenere questo o quell’ordine, bensì ripristinare l’immagine dell’uomo che è misura di tutte le cose. Ecco perché oggi ogni approccio conservatore diventa ambiguo” (p.56). Non reazionario, cioè: “L’uguaglianza fa parte dell’evoluzione: finché questa non viene esclusa non potranno presentarsi in modo credibile nuove selezioni” (p.14). E anzi orgoglioso, non senza ragione: “Andando più in profondità, conservatori e rivoluzionari diventano assai simili tra di loro perché si avvicinano necessariamente allo steso fondamento. Perciò nei grandissimi trasformatori, coloro che non solo capovolgono gli ordini, ma li fondano anche, si ravvisano sempre entrambe le qualità” (p.57). Nella consapevolezza che “come preistoria bisogna considerare la conquista del numero in quanto tale, un’avventura dello spirito umano di cui si perde ogni traccia nell’oscurità”.
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