Ci sarà stata dunque un’epoca in cui il corpo era plastico, il corpo delle donne prevalentemente. Plastico nel senso di materia plastiche, o artificiali. Nell’esposizione, o estetica, nell’articolazione, nel funzionamento, in qualche misura anche nell’intelligenza. E forse il più resta ancora da vedere. Il tema dell’ultimo quaderno della Società italiana delle storiche radica il business del corpo in una lunga tradizione immaginaria, e quindi di ricerca.
Ci sono molti modi per dire la cura artificiosa del corpo. Le curatrici della monografia a più voci, Alessandra Gissi e Vinzia Fiorino, hanno scelto “plastica” su una lontana traccia di Barthes nei “Miti d’oggi” (1957), in quanto contraddistingue e riassume “i simboli della modernità” – l’ambizione di “annullare le distanza tra il naturale e l’artificiale”. Ma i contributi risalgono alla magia naturalis di Della Porta, e alle parallele innovazioni dei grandi medici, Falloppio, Mercuriale, Paré, a tutto il Cinquecento, cioè - ogni parte del corpo era all’epoca oggetto di celebrazione, nel genere franco-italiano dei “blasoni”. E prima ancora, forse, al pitagorismo. Nonché, in parallelo, alla cura del corpo in funzione sociale, e anzi razziale, coi tanti procedimenti schiarire la pelle, qui documentati da Giovanni Vassallo tra gli africani immigrati in Italia e nel Congo - ma già prima negli usa con “Ebony” (la pubblicità della rivista negli anni 1950 era prevalentemente di prodotti, procedure e specialisti in schiarimento della pelle) e poi con le follie della famiglia Jackson, Michael e le sorelle.
Plastiche, “Genesis”, X/1, 2011, pp. 261 € 26
giovedì 5 luglio 2012
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