Tre saggi brevi su un unico tema: la colpa del perseguitato – la pena. Nel saggio del titolo Herta Müller fa lei stessa l’inventario della compromissione, “oggettiva” si diceva al tempo del sovietismo trionfante, per tipologie. Si sopravvive ai totalitarismi con la morte nel cuore, se sono durati cinquanta e sessant’anni. Nazisti o sovietici che fossero. Anche in chi a un certo punto si è ribellato: l’insidia rimane del compromesso, l’accomodamento, il tradimento. È il caso in particolare di Inge Müller, che fu “gioventù hitleriana con le chiavi del cielo al collo”, arruolata nel 1945 a vent’anni quale ausiliaria nella Luftwaffe, e nel dopoguerra comunista nella Germania Democratica, ma incapace di trovarsi appigli resistenziali nella vita precedente.
C’è una forte connotazione germanica in questi “destini perduti”, nazionale se non etnica: la Germania non ha senso epico, la nuova come la vecchia. Vuole il primato ma non senso della storia. Il suo dolore, che continuamente lamenta, è sempre privato, personale. Con l’aggiunta della storia. Il senso di colpa è poi più forte tra i tedeschi aussiedler, dell’esterno, i cui genitori e fratelli maggiori furono tra i più volenterosi carnefici di Hitler. Una condizione paradossale, nota la curatrice Federica Venier: essere “vittime ma figli di carnefici”, e “fuggire dal proprio paese per andare verso la Germania, origine e cuore del conflitto”. Herta Müller non fa eccezione, che non è in pace con se stessa. I tre scrittori che qui rievoca, Theodor Kramer, Ruth Krüger, l’autrice di “Vivere ancora. Storia di una giovinezza”, sopravvissuti alla dittatura o a Auschwitz, e la stessa Inge Müller, sono in vario modo suoi alter ego. Benché tutt’e tre siano finiti nel suicidio, Inge nel 1966 dopo vari tentativi e ricoveri in manicomio.
I tre destini sono simili, benché diversi. “Così simili nella loro struttura psichica”, li dice Herta Müller, “e così dannatamente e irrevocabilmente dissimili nella colpa”. Ma forse è il contrario: la colpa di aver vissuto la dittatura, le dittature, li amalgama e li ha disintegrati. Il sovietismo Herta Müller dice “il Noi (che) governava contro l’Io”. Apparentemente. Più vera è la conclusione: “Per il singolo fu inventata e distribuita la colpa”. Il sovietismo non governava per nessun “Noi”, non nell’Urss né nella Germania Democratica, che ha lasciato più povere di prima.
Non c’è identificazione possibile tra vittima e carnefice, ma nei fatti sì. La storia del sovietismo, dei guasti che produsse in tante generazioni di europei, e più dove si sostituì al nazismo, come in Germania Orientale, resta da fare, ma il più è noto. Inge Müller si sposò tre volte, da ultimo, dodici anni prima del suicidio, con Heiner Müller, il “secondo Brecht” del Novecento tedesco. Il quale alla sua morte non trovò una lacrima, né mai, né prima né dopo, un apprezzamento per la sua poesia. La stessa poesia può essere il collante, argomenta Herta Müller: il perseguitato se la ripete per sopravvivere agli aguzzini, i persecutori se la ripetono alla ricerca di una faglia per farne una colpa.
Herta Müller, In trappola, Sellerio, pp. 93 € 9
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