Non c’è la mafia nel “Gattopardo”, cioè in Sicilia, e a Palermo in particolare, nel 1860 – c’è l’ “uomo d’onore”, ma è una sorta di bestia: “Uno di quegli imbecilli violenti capaci di ogni strage”, i Brusca e gli Spatuzza del coltello.
L’origine della mafia è nell’origine dell’Italia, del governo italiano in Sicilia, anzi a Palermo, dopo l’annessione. Il nome e il fatto. La mafia si può dunque dire di Stato, ma nella storia, non nei teoremi volenterosi dei pentiti. Anche se di storici recenti. Anzi di una storica, Lucy Riall, irlandese – ci vuole un doppio outsider per sapere la verità (un filone di studi realistico, almeno finora, e non revisionista, opportunistico, si deve a storici non italiani, Nelson Moe, Marta Petrusewicz, Lucy Riall)? Riall l’ha detta in “La Sicilia e l’unificazione italiana”, tradotto nel 2004 e subito scomparso. Salvatore Lupo la risuscita in “L’unificazione italiana”, col crisma dunque del maggiore storico della mafia.
Lo Stato italiano creò e utilizzò la mafia per combattere ogni antagonista politico, reale o presunto: vecchi rivoluzionari, garibaldini, crispini, liberali moderati. La luogotenenza a Palermo fu affidata il primo anno a due civili, il marchese piemontese Massimo Cordero di Montezemolo e il fuoriuscito messinese Giuseppe La Farina. Fedeli di Cavour, vedevano nemici acerrimi nei garibaldini, nei repubblicani e nei municipalisti o autonomisti, i vecchi liberali che diffidavano di Napoli, categorie di politici che il conte scriveva di contrastare con “mezzi estremi”. La luogotenenza non aveva truppe: i due dovettero fare affidamento sulla Guardia Nazionale, di cui si fidavano poco, e la rimpolparono con uomini di mano nei quartieri. Uno di questi, Antonino Giammona, sarà il primo condannato di mafia, capocosca dell’Uditore arricchitosi con la manomorta.
Un anno dopo, fallito il ritorno di Garibaldi all’Aspromonte, arriva con lo stato d’assedio un generale con l’esercito, Giuseppe Govone. Con l’incarico di fare piazza pulita dei briganti, che però in Sicilia non c’erano, dei renitenti, che erano moltissimi, e degli oppositori politici. Un’esibizione di autorità, in una città e un’area dove incubava una seconda rivoluzione, che segnò, nota Lucy Riall, “un crollo dell’autorità”. Da cui l’isola non si è ripresa. Rendendo la rivoluzione inevitabile e impossibile. Finendo quindi per non credere né alla rivoluzione né allo Stato.
Contro i renitenti alla leva obbligatoria Govone occupò militarmente centocinquanta comuni, sospendendo l’erogazione dell’acqua e arrestando i parenti dei giovani. Ma l’occupazione militare non dissuase i garibaldini moderati (Crispi), quelli radicali (Corrao), e i liberali (autonomisti). Furono allora messi in azione “accoltellatori” e elementi “popolari”. La notte dell’1 ottobre furono pugnalate tredici persone, senza motivo. Responsabile si confessò prontamente un informatore della polizia borbonica, e i mandanti vennero indicati in Crispi, Corrao e i liberali. Contro Corrao si distinse un fiduciario della prefettura, Salvatore La Licata, che sarà il secondo capomafia emerso alle cronache giudiziarie.
Pochi mesi dopo, il 3 agosto 1863, Corrao fu ucciso con una scarica di pallettoni. I killer non furono cercati. Ma furono indicati nei fedeli di Corrao. Contro i quali venne aperta la caccia. In particolare contro due rivoluzionari del ’48, volontari del ’59, del ’60 e del ‘62, gli ufficiali garibaldini Giuseppe Badia e Francesco Bonafede. Fu contro di loro che nel 1865 il prefetto Filippo Gualterio coniò la parola e l’accusa di “mafia”, una “setta malandrinesca”, scriveva al ministro, a capo della quale c’era stato Corrao, e ora c’erano Badia e Bonafede.
Gualterio inaugurò, con la mafia di Stato, anche i pentiti. Nella caccia ai due si distinse il giudice Giovanni Interdonato, già repubblicano. Badia fu scovato e arrestato da Carlo Trasselli, garibaldino con lui al Volturno e sull’Aspromonte. Govone era stato sostituito da Giacomo Medici, generale già di Garibaldi.
Si arriva così all’ultima rivoluzione siciliana, quella del 15 settembre 1866, contro lo Stato italiano. Che segnò, con la sconfitta, la rassegnazione dell’isola. La città fu occupata dagli insorti, spalleggiati da squadre confluite da tutta la provincia, per una settimana. L’esercito, passato intanto nelle mani del generale Cadorna (Carlo, il fratello maggiore), e i gruppi “popolari” di La Farina, in particolare le squadre di Giammona e La Licata, ne fecero liberamente strage una volta rioccupata la città. Prima che Cadorna imponesse la legge marziale. Dopo la quale furono giustiziati solo due rivoltosi, ma si aprì la caccia a ogni personalità o gruppo politico non controllati. Accusandoli di essere criminali o legati alla criminalità, e anzi alla “mafia”, intesa setta segreta. Ma, nota Riall, nei sette giorni e mezzo dell’insurrezione non c’erano stati né sciacallaggi né altri delitti comuni. E gli arrestati di Cadorna erano in gran parte artigiani, onesti. Venne accusato e arrestato perfino il vescovo di Monreale, Benedetto D’Acquisto, colpevole di essere un intellettuale, a ottant’anni.
lunedì 30 luglio 2012
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