lunedì 2 luglio 2012

La Sicilia vittima allegra del Gattopardo

Un capolavoro, a una lettura lenta, a ogni capitolo, a ogni pagina, a ogni aneddoto, scena, riflessione. Un capolavoro di resistenza, oggi più rifinito e lucido di mezzo secolo fa. Di narratività, scrittura, intelligenza, spirito, di misura. Su un terreno arduo come la politica, e peggio ancora l’unificazione, il plebiscito (l’annullamento di ogni passione). Un capolavoro siciliano? Ma la Sicilia non ne avverte l’ironia, e questa è la “colpa” del romanzo – la maggiore grandezza. Un capolavoro italiano: Angelica e Tancredi, più che la politica, ci riportano col loro semplice nominarsi alla tradizione, l’Ariosto, il Tasso. Innervando una continuità, non surrettizia, semplicemente da non dichiarare talmente è scoperta – lo era, negli anni d formazione di Tomasi di Lampedusa, letterato molto colto ma non eccentrico. Se il dubbio era se “Il Gattopardo” regge, se è il “Buddenbrook” italiano, non c’è più.
Questa terza edizione non aggiunge al “Gattopardo”, né a quello originario di Bassani, che Lanza Tomasi dice editore corretto, né a quello esemplato sul “manoscritto” del 1969, che da allora si ristampa. Se non per poche variazioni, più che altro di punteggiatura – punti e virgola invece di punti. E per l’introduzione dello stesso Lanza Tomasi, che riporta Lampedusa al “gattopardo” siculo, quello che c’è ma si nega – “la Sicilia è quel che è, nel 1860”, scrive a un amico spiegandogli il romanzo, “di prima e di sempre”. L’isola con più continuità storica nel Mediterraneo e in Europa, da alcuni millenni prima di Cristo, infissa a una sua immutabilità, non benevola. E sarà questa la vera eredità degli arabi, ammesso che gli arabi siano ignavi o rassegnati – al famoso fatalismo: il gattopardismo dei suoi nobili, tutti peraltro di denaro e di corte, e dei loro emuli snob. La Sicilia che fu araba per poco tempo, di una dominazione sofferta, tra guerre civili e di potentati, meno che fenicia, greca, romana, vandala, normanna, perfino angioina, e castigliana. Qui nelle vesti di un principe buono e saggio ma spregiatore del genere umano. E più nelle vesti dello snob, seppure colto e critico, che, per il bene e per il male, dell’aristocratico feudatario. Il vecchio temperamento atrabiliare: passivo sempre, mai fa o decide una cosa, e di tutto è infastidito - “«sono forse più intelligente, sono certamente più colto di loro»”, “la sua morte era in primo luogo quella di tutto il mondo”.
“Ridotte a schemi”, scrive Lanza Tomasi, le emozioni positive permangono soltanto nelle strutture della forma romanzo, ed interferiscono assai di rado con la descrizione di quel regno minerale , fatto di fossili animati ed inanimati, in cui Lampedusa identifica la condizione siciliana”. Un’isola fossile. E come sempre avviene quando la fantasia prevarica la realtà, la Sicilia vi si riconosce, se ne fa un blasone perfino, col suo finto pessimismo ma con allegria, la borghesia isolana che si ritiene migliore. Un caso esemplare dell’odio-di-sé. Bassani e Vittorini lo sapevano entrambi, aggiunge Lanza Tomasi: “La scoperta di Bassani e il diniego di Vittorini non sono bizze di letterati”. Ognuno a modo suo: “Bassani è anche egli un notomista dei vinti; mentre il rifiuto della trascendenza, anche a livello di ideologia, è attivamente sgradevole a chi pensi di poter contribuire al progresso del mondo”.
Lanza Tomasi ci ha lavorato a lungo, a questa “sua” riedizione, dal 1969. Dandone infine alcune chiavi, peraltro implicite: la trasposizione dei suoi tratti e modi di giovane figlioccio in Tancredi, e quella personale di Lampedusa nel misoneista Salina. In uno dei due brevi allegati inediti, Donnafugata è un palazzo splendido “nel cuore nero della miseria siciliana”. Che si poteva dire in tanti modi, ma in questo ha un solo significato. Gli altri inediti sono mezza pagina sull’affetto canino, e una parte del “canzoniere” di don Fabrizio – il Principe poetava. Anzi di Don Fabrizio, precisa Lanza Tomasi, sono minuscoli don Ciccio, don Calogero, e don Peppino Mazzini.
Il resto è noto. Se non per l’irrisione, che a una rilettura s’impone dominante, dalla prima riga con la recita quotidiana del rosario. Roba da circolo dei nobili, che sempre si sfottono. Della cui aneddotica, è giusto dirlo, il tardo scrittore trae il meglio, tirandosi fuori dal “colore” in agguato, amorazzi, corna, astuzie – Lampedusa teneva circolo a suo modo, con tre e quattro appuntamenti antimeridiani in caffè diversi di Palermo (aveva soglia di attenzione breve?). E per la forza della costruzione, che condanna (avvince) la Sicilia a immortalarsi in un romanzo comico, nel progetto (Lanza Tomasi lo spiega ad abbondanza) e nell’esito. Peggio: Salina, principe di forti principi per via della madre tedesca, è precipitato “nell’habitat molliccio della società palermitana” e “nel lento fiume pragmatistico siciliano”, cioè inerziale, opportunistico. Un Principe maiuscolo, dal “cipiglio zeusiano”. Che ha infine, primo di una lunga discendenza, imparato i numeri, ma giusto per guardare le stelle.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, nuovo ed. riveduta a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Feltrinelli pp.299 € 7,50

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