Una bellissima storia d’amore. Tra un soldato dell’Ottava Armata in Carinzia a fine guerra, ebreo di Palestina costretto a emigrare da Vienna nel 1938, “basso e bruttino, con gli occhiali”, e la diciannovenne Ingeborg Bachmann, bella e sensibile. Ogni persecuzione isola, nel groviglio di violenze e complessi, e conduce alla perdita di sé, dell’autostima, più spesso che alla rivolta. Nel caso di Jack Hamesh, in paese per tutti “l’ebreo” ancora a guerra finita e perduta, l’incontro elimina questo virus. In lui, di grande cultura e passione per la cultura, benché alla smobilitazione finisca a Tel Aviv scaricatore di porto. In lei, che l’incontro libera, dalla famiglia, dal paese, dal razzismo, dalla Hitlerjugend. Un rapporto intimo non furtivo (“fra di noi non facciamo mai discorsi che non potrebbero essere ascoltati”, Inge si difende dai rimproveri della madre), di passeggiate nei boschi, di lunghe conversazioni in camera di lei, di letture comuni, Thomas Mann, Hofmannstahl, Schnitzler, Stefan Zweig, il “Capitale” e un Adler. “È l’estate più bella della mia vita e, dovessi campare cent’anni, queste resteranno per me la primavera e l’estate più belle”, Ingeborg volle tenere in quei giorni un diario, piena di entusiasmo e gioia di vivere, malgrado i problemi di sopravvivenza – il fratello minore Heinz “ha l’aspetto di uno scheletrino, non capisco, noi facciamo per lui tutto il possibile”.
Una storia per più aspetti interessante. Per la biografia d’Ingeborg Bachmann, compresa la futura relazione intima con Celan. Ma soprattutto per l’“amore redentore” che le lettere successive di Hamesh, che prendono la maggior parte della pubblicazione, delineano, all’ingrosso e al minuto. Nel rapporto fra l’ebreo e la madrepatria austriaca negata. E nelle occorrenze quotidiane dell’emigrato-assoldato-smobilitato Hamesh. Tanto più alla luce della personalità che nella postfazione il curatore Hans Höller riesce ad enuclearne. Di un Jakob Chamisch che non ebbe mai la cittadinanza austriaca, benché di famiglia da sempre residente nell’ex impero, costretto a emigrare a diciotto anni, finito in occupazioni umili, malgrado la passione per lo studio e l’ambizione di poter un giorno insegnare: apprendista calzolaio, bracciante, disoccupato dopo la smobilitazione, quindi scaricatore e, dopo un incidente sul lavoro, impiegato al porto di Tel Aviv. Un uomo di singolare capacità d’introspezione e d’osservazione. Della propria situazione. Della giovane Inge – con la quale ha amato “sfidare ridendo questo nostro tempo”. Del miracolo di Israele: “Si cerca l’acqua e si continua a trovarla”. Della politica che pure non gli piace: “Qui c’è petrolio, qui c’è il Canale di Suez, la via per le Indie. Gerusalemme, qui nacque Cristo, qui vissero un tempo gli ebrei, qui vegetano da secoli gli arabi, un vita miserabile che a stento riterresti possibile. Qui furono rivelati i Dieci Comandamenti, qui viene in pellegrinaggio chiunque creda in un Dio, si chiami Cristo, Yahveh o Allah”.
Nel “Diario di guerra” di Inge c’è anche un ufficiale inglese “straordinariamente lungo e secco”, di nome Bob, aristocratico, che è la chiave di un capitolo del “Libro Franza” rimasto enigmatico, “Ritorno a Galicien”. Nel “Libro Franza” è questione di un amore giovanile con un Lord Percival Glyde, un ufficiale alto e segaligno, educato a Oxford, di famiglia aristocratico. Bob nel “Diario” Inge lo fa innamorato dell’amica Liesl. Un’amica che come lei non ne può più delle convenzioni e del piccolo paese. Che ama il lord benché sia amata, “devotamente”, da un altro ufficiale britannico.
Ingeborg Bachmann, Diario di guerra, Adelphi, pp. 132 € 11
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