Il volume collettaneo, di donne storiche che scrivono sulle donne di mafia, curato da Gabriella Gribaudi e Marcella Marmo, insiste sul rito di iniziazione. Che era delle onorate società ma non lo è delle mafie. Le quali sono congregazioni temporanee di interessi. Non da ora, dagli anni 1950 in Sicilia e a Napoli, da un decennio dopo in Calabria. La ricerca, sebbene a più mani, ne è rimasta condizionata, finendo per fare le donne della mafia un mondo a parte rispetto a quello degli uomini. Per mancanza di iniziazione? Non è una buona storia. Non solo perché non c’è ovviamente un registro delle iniziazioni.
Le donne non c’erano nella mafia, se non in ruoli marginali, in quanto la mafia era ritenuta un crimine, dagli stessi mafiosi. Così come non si mandava una dona a compiere un delitto d’onore, ma un uomo, un fratello, il genitore, uno avunculo. Ombretta Ingrasci alla fine lo dice: “Le donne partecipano alle attività mafiose senza essere formalmente affiliate”. Ma non c’è un problema di iniziazione, anzi nemmeno di genere, a Napoli, scrivono le due curatrici: “Le differenze di genere nella camorra rimandano, a ben vedere, alle caratteristiche della più ampia società napoletana: una società urbana in cui le donne degli strati popolari hanno giocato ruoli cruciali nella gestione dell’economia illegale”. Ciò è vero soprattutto nella microcriminalità: l’organizzazione dei furti, o dello spaccio. Nelle culture urbane, aggiunge Gribaudi nel suo contributo, c’è “una scarsissima segregazione tra mondi maschili e femminili”.
C’è sicuramente una grande differenza tra maschi e femmine nel mondo criminale. Di genere, rafforzato ultimamente da una componente sociale e intellettuale per l’ambizione del mafioso a elevarsi nel connubio – non nell’ambizione alla famiglia (alla genealogia) e alla proliferazione maschile, che tanta inconcludente sociologia incolla loro addosso ma per l’ambizione di ogni sposo. La moglie di Riina esemplifica questa complessa differenza-identificazione. Una insegnante che convive con un latitante per trenta o quarant’anni, col quale ha dei figli di cui cura la formazione, che è una belva umana, letteralmente, e di cui non si può non sapere, essendo lo stesso un capo sempre in attività.
Il resto della ricerca si perde nella questione dei ruoli o della subalternità. Non senza ragione. Marcella Marmo smonta la figura eroicizzata di pupella Maresca, che una cinquantina d’anni fa si fece vendetta per amore (uccise l’assassino del suo giovane marito camorrista), portando in rilievo la soggezione della stessa “eroina” al compagno vendicato, che le aveva ucciso il figlio e la massacrava di botte. Il momento più vero della ricerca è forse nella scoperta (Monica Massari), attraverso i documenti giudiziari, della “particolare combinazione esistente tra caratteristiche, ruoli, funzioni profondamente ancorati alla modernità e modelli di comportamento di tipo arcaico, quasi primitivo, inneggianti alla vendetta, alla faida, alla violenza sanguinaria”.
Donne di mafia, “Meridiana”, n.67, pp. 240 € 25
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