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mercoledì 11 luglio 2012

Letture - 102

letterautore

Borghese - È scomparso dalla letteratura nel momento del trionfo. Piaceva – ha una funzione letteraria – quando era in crisi? Il borghese vuole essere minacciato, Mandel’stam lo sapeva nel 1930 (“Quarta prosa”): “Il borghese è di sicuro più ingenuo del proletario, più prossimo al mondo uterino, alla condizione del neonato, del gattino, dell’angelo, del cherubino”. Facendolo – facendosi – padrone, anche cattivo, si dava dunque sicurezza.
Mandel’stam lo voleva comunque protetto: “Bisogna serbare la borghesia nella sua candida parvenza, divertirla con intrattenimenti improvvisati, cullarla…”. Sottintendendo, naturalmente, che chi deve cullarla è la borghesia stessa: l’effetto si raggiunge meglio deprecandosi, purché si conduca il gioco.

Camilleri - “Il Sole 24 Ore” pubblica due domeniche di seguito lo stesso “Posacenere”, la rubrica di Andrea Camilleri, ma nessuno se ne accorge – nemmeno il giornale. Quanti dei milioni di acquirenti dei “Montalbano” leggono l’ostico personale dialetto dello scrittore, benché stilizzato-ripetitivo?

Dante – “Mi sono smarrito nel cielo… Che fare?” Così Mandel’štam, dantista emerito, rivive il poeta nel suo proprio esilio a Voronež, In una composizione modesta (ora nella raccolta “La conchiglia”) ma con la stessa disperazione di esule in patria, reale e figurato - Mandel’štam è confinato, non ostracizzato, ma presagisce la sua morte, di lì a pochi mesi, in un gulag nella remota Vladivostok.

Gattopardo – Si può anche dire realistico, ma sempre nel quadro dei romanzi “cavallereschi” alla Cervantes. La sua aristocrazia – di questo parla il romanzo – è plebea. Ciò corrisponde alla realtà: l’aristocrazia siciliana è di affari, non politica, né di guerra o di saperi. Di nessuna qualità, salvo l’aver ammucchiato un tempo la roba. E alla terza o quarta generazione si è dissolta, il tempo per i nipoti di farsi poeti o l'amante a Parigi: il tipo che si mangia il capitale (“la rendita non basta più, bisogna intaccare il capitale”). Senza spessore, senza consistenza. E quindi, da incapace, tournée fatalista. Ma, presumibilmente, nemmeno tanto povera, di spirito e di soldi, sia i giovani (Tancredi) che i vecchi (il Principone), come il “Gattopardo” la rappresenta. Nel palazzo sulla Conca d’Oro, a Donnafugata, al ballo.
Gioacchino Lanza Tomasi spiega nel saggio, a lungo meditato, con cui ha presentato l’ultima riedizione del romanzo, che Tancredi fu disegnato sulla sua figura fisica e il modo di fare, il Principe Salina sul bisnonno di Lampedusa. Ma il lettore non può non collegarlo alla figura stessa di Lampedusa, e ai suoi modi di essere.

Intellettuale – È figura del passato, in rapida obsolescenza – “il digital divide riguarda anche l’intellettualismo”, argomenta Rina Brundu, editore-direttore di “Rosebud”, il giornale online. In termini di mercato è come se l’intellettualità – intellighencija nelle sue forme di potere – avesse avuto finora una struttura oligopolistica, con le tipiche strozzature all’accesso e nella selezione (cooptazione, cordate, verticismo), che i blog liberi e i social network hanno sbloccato.
Non è un prospettiva nuova. Se ne discusse prima della guerra a proposito della “cultura di massa”, a opera della Scuola di Francoforte, e in Italia negli anni 1960. Allora il primato fu agevolmente ricostituito attorno alla cultura “alta”, malgrado la messa in guardia che già cinquant’anni fa circolava a opera di Marshall McLuhan (“il mezzo è il messaggio”, l’immagine, l’informazione immediata, plurima), col passaggio dei poteri dalla Scuola di Francoforte alla Nuova Retorica francese. Di fronte al fenomeno Rete le schiere tardano ora a ricostituirsi.

Parole composte – Molte sono di uso comune e ormai indistinte (madreperla, pescecane, salvagente, etc.). Quelle divise pur essendo composte le usava il greco antico e le usa il tedesco moderno. Ma con effetto antitetico. Allusiva, armoniosa, sempre cantabile è la parola composta in greco, ferrigna in tedesco, piatta, freddamente significante più che evocativa, e non unitaria. Un sintagma senza il verbo, che specifica ma non incarna il senso, composita e non unitaria.
Perché il greco usa parole composte aggettivali, il tedesco sostantivali? Perché il tedesco è lingua tecnica e filosofica, il linguaggio ha disperso nella sua misterica meditazione – non fantastica: grave, e inconcludente.

Sovietismo – Il discredito è stato totale e radicale. Di una cultura pure imponente, e con effetti duraturi, quasi incancellabili. Nessuna vindicatio, neppure una memoria. Anzi, a un quarto di secolo dalla sua caduta, non se ne recupera niente. Giusto la pittura, ma allora in spirito eretico. Con pregiudizio di autori e idee di spessore, nella poesia, nel cinema, nelle arti grafiche.

Storia – “Tutto passa e tutto resta,/ però il nostro è passare,/ passare facendo sentieri,/ sentieri sul mare” – oggi si direbbe “liquidi”. È in questi versi di Machado il fluire della storia, la più vera delle sue verità.

La storia è tragica, trova Raymond Aron. Un gran bollito secondo Gadda. Era cieca e irrevocabile per Valla, Poliziano e Telesio. Commedia e dramma. E in essa non c’è rimedio, se la fantasia non la completa, questo era già vero per Bouvard e Pécuchet. La storia ha avuto sempre un gran richiamo sui letterati. È l’incubo da cui Joyce tentava di ridestarsi. È nozione borghese e romantica. La storia è mania borghese anche secondo Aragon, il con d’Irène, e gli altri derivati del Pcus. Essendo tutta un pettegolezzo tra Oriente e Occidente, ammicca Del Buono da “Linus” Il metodo storico è dell’Ottocento, secolo borghese e occidentale, dopo la Rivoluzione. Confuso tra odio e favore di parte, il racconto della storia è sconveniente, diceva già Schiller nel “Wallenstein”.
La storia parte da un principio esattamente opposto a quello che regge la vita – checché volesse dire Schiller (o non sarà Camus: “La storia annienta l’uomo”?). “Lu munnu va n’arreri!” è scoperta del poeta Domenico Tempio, il mondo va in culo. La fisica la fa finire in un buco nero. Anche figurativamente, per la cecità della storia.

Tribù – Sirieni, oppure udmurti, le note esplicative assicurano che sono popolazioni reali, Mandel’stam ci ricama sopra nelle sue memorie di Pietroburgo (“Il rumore del tempo”). G.Grass fa molto caso dei casciubi, la sua tribù a Danzica. Herta Müller dei suoi sassoni del Banato. Magris dei bisiachi. Poi ci sono gli ingusci, i loro nemici gli osseti, e una diecina di altre nazionalità nella minuscola Ossezia del Sud, di cui mai si è parlato come oggi, che contano pochi effettivi.
La tribù piace ai letterati. In ribasso presso antropologi e folkloristi, viene bene per sorprendere il lettore con le sue virtù speciali. Anche se solo per effetto dell’inbreeding, fisiologico e sociale. Questo avvertibile e avvertito in Germania alla rinazionalizzazione, dopo la riunificazione, delle tribù etniche sparse da secoli per il mondo: gli hütterer dell’est Europa e del Nord America, i sassoni di Romania, le colonie dimenticate del Volga e del Paraguay. Ma più le tribù piacciono per essere morte, o moribonde - un po' alla manmiera come si leggevano in Margaret Mead, reali e remote, se non estinte. A questo fine servono meglio le tribù disseminate nel vasto mondo slavo. Quelle dell’Africa, dove hanno ben più solida consistenza, invece, non attraggono. Bisogna anche dire che le tribù vive africane hanno più vizi che virtù – non se ne conoscono. E fanno paura.

letterautore@antiit.eu

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