astolfo
Capitale - Il capitale è il credito, oltre che la proprietà. E tecnicamente è cristiano - anche ebreo, ma in ambito cristiano – e quindi fino a un certo punto solo cattolico. San Paolo s’infastidì presto dei cristiani pauperisti e irenici, e lanciò il famoso: “Siate fanciulli nel cuore, non nella mente”. Ci volle tempo. Nella storia il capitale emerge in epoca moderna, coi Medici, Chigi, Fugger, Duché, agli ebrei si lascia il prestito ai cristiani poveri. Ma la simonia nasce col cristianesimo, fino alle indulgenze, il più geniale colossale mercato dei consumi mai ideato: come indurre bisogni urgenti d’un bene inesistente. E quando il capitale è voluto diventare virtuoso, a gloria di Dio, la chiesa l’ha santificato, prima il lavoro, poi le opere tutte.
Il capitale è brutta bestia, è la materia in azione. Talora si dichiara, con le sorprendenti definizioni del denaro, sempre s’infiltra con inarrestabile magnetismo. Lievita pervasivo sul pecus inerte, della materia dei fantasmi ma solido. È la più aggressiva manifestazione del diavolo, la lussuria è al confronto piccola cosa, se non per la sua forza angelica. Max Weber avrà avuto il merito, con Gotheim e Sombart, di studiare i fattori religiosi, oltre che sociali, del capitalismo – e Fanfani dopo di loro, il senatore, i cui tomi gli Usa studiano più di Weber. Napoli, la maggiore area capitalistica, d’imprenditoria capillare e caparbia, che si nega per meglio non pagare i tributi, sforzo sovrumano raddoppiato dalla leadership costantemente rinnovata nel contrabbando e l’industria dei falsi, dove la concorrenza è aspra, è religiosa fino alla superstizione, fedele a san Gennaro e ai morti. Se la santità c’entra in queste cose, san Gennaro è altrettanto spietato che Calvino e gli altri numi riformati, o i santi Borromeo tra i pii lombardi - quel che è certo del capitale è che vuole pelo sullo stomaco. Weber non poteva saperlo, a Napoli ci andava in vacanza, reputando anch’egli i napoletani fannulloni, mentre sono ingegnosi e applicati. E, avendo penetrato la natura della ricchezza, vanitosi e spendaccioni.
Federico Il Grande 2 - Anche Stendhal, che passò la vita a scrivere, odiava il padre. E aveva lo stesso bisogno d’isolamento, che espresse in pseudonimi e criptogrammi, le frasi cifrate. Ma Federico non lasciò traccia, malgrado l’impegno d’una vita, nelle lettere. Né nella vita: i calci e le frustate del padre lo resero incapace di copulare, secondo Voltaire, anche con gli efebi di cui giornalmente rinnovava i ranghi. È dunque dubbio, per l’autorità di Voltaire, che si sia sverginato a Dresda, come narra la sorella margravia. “Che c’è in Germania degno di nota”, scriveva il Campano agli amici in Italia? “Soprattutto il fatto che i morti vivono”, mortui vivant.
Federico sarà Grande per le imprese fortunate, ma era mingherlino, e quando morì si trovò che entrava in una bara da bambino. La sua poesia sono le sue imprese, ha detto Goethe, “il primo vero, alto e autentico contenuto vitale” della poesia tedesca. Ma questo monumento è un problema.
Aveva fede negli spiriti e amore per i cani. Degli uomini diffidava, le donne non le frequentò mai.
La sorella ne ricorda un attentato alla verginità in occasione di una visita che il padre l’aveva costretta a rendere al re di Sassonia, accompagnata dal fratello. Augusto il Forte deve l’appellativo ai figli, ne generava una diecina l’anno. Nulla al confronto di Salomone, che ebbe settecento mogli e trecento concubine, ma quando Augusto morì si calcolò che avesse fatto 354 figli. Qualcuno con la contessa Orczelska. Che era figlia sua, e di una francese con negozio a Varsavia. Il conte Rodofski, di cui la contessa era sorellastra e amante, la presentò a corte, dove divenne l’amante del re suo padre, che ne fu geloso. Quando i principini di Prussia giunsero in visita e il futuro Federico II s’infatuò della contessa, l’elettore montò un colpo di teatro: dopo i brindisi fece trovare al principe sedicenne dietro una tenda, in una stanza ben calda nel gelo di gennaio, addobbata di rosa e vermiglio, al centro di un cerchio di candele sfavillanti, “una ragazza nello stato dei nostri primi antenati, un corpo d’avorio più bianco della neve e più formoso della Venere dei Medici”, notò nel diario la sorella di Federico. Per un convegno, se non è fantasia sororale, dal quale il futuro re uscì senza più fregola: Voltaire, che sarà suo intimo, lo attesta “insensibile alle donne”.
Federico si vendicherà di Augusto, invadendo la Sassonia. Alla sorella Guglielmina, margravia di Bayreuth, donerà autobiografici doppieri di Dresda, con un pastore incipriato intento a scrivere lettere incompiute.
Il re Augusto di Sassonia, cui Bach intonò interminabili odi, si godeva con la stessa voracità la musica – andò fino a Venezia per ascoltare Vivaldi – e le porcellane, e si divertiva alla passione di Federico Guglielmo, il padre del futuro Federico il Grande, per gli heiduk, i soldati di almeno un metro e ottanta - nel 1717 inviò a Federico Guglielmo seicento soldati giganti in cambio di centocinquanta pezzi cinesi, barchette blu e bianche, quattro soldati per ogni battellino. Ma trattava Bach da organista, e non gli diede mai le sue spettanze, nemmeno quando il musicista gli fece causa. Miglior sorte Bach sembrò avere a Berlino, in una breve visita su invito di Federico. Che si avrà dal maestro l’“Offerta musicale” in omaggio, ironico, per essersi il re dimenticato di ripagarne il lungo viaggio. Secondo Kant il sublime dei tedeschi è la magnificenza.
Miglior sorte ebbe con Federico Algarotti. Instancabile collettore di codici e opera d’arte per il re di Prussia, dopo averlo fatto per i due Augusto di Sassonia e la loro famosa galleria, avrà il suo mausoleo al Monumentale di Pisa pagato da Federico II.
Intellettuali - Il “lavoro intellettuale” di Sartre e Fortini è niente, se non è una vergogna. È come dice Schmitt: “L’intellettuale fu rappresentativo solo in un’epoca di transizione, nella ribellione alla Chiesa”. L’intellettuale di Platone è un dittatorello. Quello “organico” sa di rifiuto – Schmitt lo direbbe della natura del teologo, della teologia che nei primi secoli fu fonte di controversie cruente, con identico arsenale - esegesi, ipse dixit, anatema - ma non grato: un intellettuale dovrebbe essere semmai contro il Partito.
L’intellettuale ama rappresentare la sua funzione, con ricorso aperto sulla scena all’omissione e l’ipocrisia, ma questo ne fa un cantante d’opera più che una autorità. Il suo è un lavoro, usurante. Garboli, bello e ricco di suo, e ospitale, che l’intellettuale voleva proletario, ha ragione: più proletarie di tutte sono le attività intellettuali, lavoro non pagato, una schiavitù, seppure volontaria. Pensare o scrivere non sono un lavoro nel vocabolario e l’opinione, sono ritenuti e si vogliono uno svago, roba da dilettanti. Mentre sono l’occupazione più assidua, minuto per minuto, giorno per giorno, senza soste né vacanze, vengono idee pure la notte, sia la scrittura creativa, poesia, filosofia, o politica, d’occasione, di scopo, più spesso senza retribuzione, nel più puro stile stakhanoviano, volontaristico. C’è piacere evidentemente in questa professione, all’opposto che nel puttanesimo, ma allora sorge il problema: perché? per cosa perdersi?
È per il borghese che lo depreca un declassato in cerca di rivincita, che non sa andare oltre la nostalgia di quand’era un notabile. Ma allora è anche il borghese tipo, il parassita.
I conservatori dicono gli intellettuali élites mascherate, oggi anzi disoneste, che si fanno scudo dell’uguaglianza. E il numero certo conta: “La nostra Europa affonderà con la «democrazia» dal basso, di fronte a un alto che non ha con sé il numero”, si può convenire col Burckhardt di un secolo e mezzo fa. Ma è affondata anche dall’alto, a opera di regimi e élites.
Oskar Pastior, lo scrittore rumeno di lingua tedesca che nel 1945 fu deportato a diciannove anni tra i primi in un campo sovietico di lavori forzati, testimonierà: “Gli intellettuali nel campo hanno abbandonato per primi la loro moralità, molto prima della gente priva d’istruzione”. La quale aveva chiaro in testa: “Questo non si fa”.
Totalitarismo – Intacca le coscienze. Sarà stato questo il suo dato caratteristico. Sia nel primo Novecento (fascismo) che nel secondo (sovietismo). Senza redenzione. Chi lo ha subito, nel senso che successivamente, mutata la storia, ha fatto un’altra scelta, semplicemente lo rimuove. Non lo spiega, non ne fa un caso di ricerca, che implicherebbe esporsi. Semplicemente non ne parla, e non vuole che se ne parli. È stato il caso per cinquant’anni di G.Grass, che pure è uno che espone tutto di sé, che ama raccontarsi. E all’Est dei tanti scrittori che erano stati stalinisti o spie: ora la Szymborska, in passato Kundera o Christa Wolf – che Grass ha difeso strenuamente, prima di decidere di testimoniare da sé il passato nazista (ma sempre senza elaborazione storica o socio-psicologica: semplicemente per vendere più copie delle memorie). O, in Italia, Giacomo Debenedetti e i tanti altri che poi “saltarono” da Mussolini al Pci.
È raro che un’esperienza personale non venga rielaborata da uno scrittore, narratore o critico che sia. Tanto più una così coinvolgente quale si vuole un regime totalitario. Ma di fronte a esso c’è o l’eja, eja, alalà, o la saracinesca.
astolfo@antiit.eu
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