astolfo
Capitalismo - Il solo frutto duraturo della Rivoluzione francese è Ouvrard, il capitalista. Che non aveva vent’anni nell’‘89, capì che ci volevano carta e manifesti, e l’anno dopo era ricco. A ventuno capì che ci sarebbe stata la guerra, a venticinque apriva una banca. Marx che ne avrebbe detto, o un altro del’‘48, la primavera dei popoli, se ne avesse conosciuto l’utopia? Settimana di quaranta ore, un mese di ferie, riposo pagato per malattia e maternità, scuola gratuita, notizie per tutti a domicilio, e serate di canzoni e cosce nude per tirare su il morale – Bentham, che pure l’aveva pensata, a questo non arrivava, e comunque la sua utopia non l’ha realizzata.
Il fatto è assodato, e bisogna rifletterci. È la riprova o una smentita della dottrina liberista della società, che la democrazia e la ricchezza vede incrementarsi nello scambio? Ci sono dei residui: se il capitalista è il rivoluzionario, il rivoluzionario sarebbe un mafioso, e ciò non è possibile, crollano un paio di secoli e molta storia. Per quanto, la scomparsa di Napoli è anch’essa una forma di clandestinità, compatta, costante, decisa, e quindi di resistenza. La stessa organizzazione del crimine, la riservatezza, la struttura cellulare, i linguaggi criptici, le parole d’ordine, ricalca lo impianto della guerra partigiana. Analoga e fino alla morte è la reciproca lealtà tra gli affiliati. Analogo è il bisogno ricorrente di eventi eroicizzanti, la sfida, l’imboscata, l’amore delle guaglione, il silenzio sotto tortura. Un semiologo avrebbe problemi a non finire in una cosca piuttosto che in un fronte di liberazione. La differenza è nella legge, ma è tenue: qualsiasi giudice lo sa, ministro della legge. È un capitalismo che nega, anch’esso. E anzi si ammanta del bisogno. Di disoccupazione e soprusi. Un capitalismo anticapitalista, che capitalizza cioè pure sulle ragioni dell’anticapita-lismo. Da qui il nimbo di resistenza che corona la latitanza.
Gattopardo – “Per il Re, certo, ma per quale Re? E: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. L’ideologia della nuova Sicilia, e della nuova Italia, che “Il Gattopardo” sintetizza non è del Principe filosofo e inetto don Fabrizio ma del giovane scaltro nipote Tancredi, che per prima cosa nella sua strategia gli ha rubato il cuore.
Il principe zio don Fabrizio, il Principone protagonista, naturalmente è d’accordo, ma perché per prima cosa Tancredi nella sua strategia gli ha rubato il cuore. I due concordano che il cambiamento è “dialetto piemontese invece che napoletano”, di re comunque buzzurri e incapaci. Ma nel fondo del Principe zio il sentimento è costante che, se i “piemontesi” sono sciocchi, Tancredi è furbo.
La pagina vera della politica di Salina-Lampedusa è quella sul plebiscito monolitico, a metà della Parte Terza del romanzo, prima della degradante domanda di matrimonio della nipote di Peppe ‘Mmerda. Una pagina semplice e durissima. Don Fabrizio è inquieto. Non sa perché, ma “sentiva che durante quella troppo asciutta enunciazione di cifre come durante quei troppo enfatici discorsi, qualche cosa, qualcheduno, era morto, Dio solo sapeva in quale andito del paese, in quale piega della coscienza popolare”. Finché il suo compagno di caccia che ha votato “no” e ha visto il suo voto cassato non gl scioglie “l’enigma: adesso sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata, la buonafede”. La conseguenza è la “storpiatura delle anime”: “Centomila «no» in tutto il Regno non avrebbero mutato nulla al risultato, lo avrebbero anzi reso più significativo, e si sarebbe evitata la storpiatura delle anime”. Prima c’era la reazione. L’Italia si presenta con “le parole molli dell’usuraio: «Ma se hai firmato tu stesso? Non lo vedi? È tanto chiaro! Devi fare come diciamo noi, perché, guarda, la cambiale! la tua volontà è uguale alla nostra!»”.
La storia nel “Gattopardo”, le date, gli avvenimenti, non sono casuali, l’ideologia della nuova Italia è nuova: è italiana, la vecchia Sicilia non c’entra. Ma è anche vero che l’interprete e l’emblema dell’Italia unita, il suo eponimo-eroe e il suo giudice, è un principe saccente, che si pone fuori dalla storia. Spregiatore del mondo, con un nipote furbo e corrotto nel quale si specchia.
Imperialismo – È sempre stato più facile fare affari negli Usa e con gli americani che in Francia o con i francesi, per non dire in Germania o con i tedeschi. L’impero è più generoso e apre più prospettive che il nazionalismo. Anche se ne è (in parte) una proiezione. Il nazionalismo è invece sempre asfittico.
Sarà stato, come ora in Iraq e Afghanistan, l’impresa meno redditizia e più disastrosa della storia. Quello inaugurato dalla gran Bretagna in concorrenza con l’Olanda, imitato dalla Francia, e sancito a Berlino nel 1885. La Conquista era stata redditizia. Così come poi la tratta degli schiavi: si può anche dire che sia stata l’avidità la molla del delitto. Ma la sottomissione di paesi e popoli remoti fu un’impresa perdente, anche quando non fu contestata. L’economista eterodosso della London School of Economics, P.T.Bauer, aveva compilato tavole, negli anni 1960, da cui risultava che le partite correnti con gli ex territori erano sempre state in perdita per la madrepatria (spese militari, stipendi, sedi, viaggi, un minimo di infrastrutture).
Intellettuali - L’intellighencija Riccardo Picchio aveva delineato già nel 1952, prima che diventasse materia della propaganda occidentale nella guerra fredda, come un fenomeno slavo, e come una classe distinta – una forma di notabilato: “Nei paesi slavi gli intellettuali hanno raggiunto un’individualità notevolmente più spiccata che non in Occidente. Nel caso del secolo XIX essi hanno teso a superare la funzione di ceto per assumere quella di una vera e propria classe dirigente”. Il termine intellighencija “non vuole indicare semplicemente un insieme di persone dedite ad attività intellettuali , bensì una categoria speciale esprimente, attraverso le attività intellettuali, concezioni ad essa, e ad essa solo, proprie” (“Rassegna italiana”, XXIX, p. 329).
Mani Pulite – Se ne è parlato poco nel ventennale. Per non farne un’analisi critica? È stata ed è la politicizzazione della giustizia, e questo nessuno più lo nega, ma non se fa ancora una gnoseologia positiva – mentre l’ermeneutica è debole, del tipo televisivo. Si può anche dire che i corpi, o gli anticorpi, della “rivoluzione italiana”, come Mani Pulite si voleva, di questa come di tante altre, non sono promettenti: l’evidenza è nella qualità dei protagonisti, negli argomenti, nelle proposte, roba da Masaniello.
Non si sa ancora se è stata ed è evento accidentale, o prodroma di reale decadenza. Lo storico Furet, che pur avendo indagato l’idea comunista nel XX secolo riferendone come “Il passato di un’illusione”, ha scoperto tardi l’Italia, era indignato dall’ipocrisia della “rivoluzione” stessa, che per questo metteva tra virgolette, che la battaglia contro la corruzione fosse condotta dai più corrotti, e contro la mediocrità politica dai più mediocri. Al meglio, notava Arbasino, il social scientistdegli anni 1980-90, in “Paesaggi italiani” (“Stagioni morte”), “l’ex comunista che riscuote i dividendi delle attività non di Stalin o Togliatti o Berlinguer ma dei governi più faticosamente anticomunisti” di un passato “compromesso e rimosso”. La rimozione è totale per la giustizia politica, catastrofe delle moderne democrazie. Abbiamo reagito alla superfetazione della politica con una politica peggiore e più invasiva.
Manomorta – Nel “Gattopardo” è “il patrimonio dei poveri”. Anche nelle “Lettere meridionali” di Pasquale Villari, del 1862, a ridosso dell’unificazione e dell’applicazione delle leggi eversive. Se ne appropria la borghesia, sotto il pretesto dell’anticlericalismo, a vile prezzo, e senza limiti per il demanio e gli usi civici, per quell’avidità che ne resterà il segno distintivo. La borghesia non è una: in Francia è diversa, in Gran Bretagna è diversa che in Francia e in Italia, lo faceva notare Tocqueville e ognuno lo vede. In Italia nasce, si rafforza, e ne ha il complesso di colpa, con l’appropriazione della manomorta.
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