Ci si saluta al Sud come nel resto del mondo. Con un cenno, un suono, un’occhiata, riserbando baci e abbracci a lunghe lontananze. Ma avviene che i settentrionali trovandosi al Sud, poiché si sa che al Sud la gente si bacia e abbraccia sempre, dispensino baci e abbracci a ogni incontro. Anche tre volte in un giorno, se avviene d’incontrare la stessa persona la mattina, il pomeriggio e la sera. È un grosse corvée per i meridionali – che, in effetti, sono indolenti.
Grande
dibattito a Milano sulla Grande Brera. Su come cioè tirare le infinite bellezze
raccolte a Brera dai rifiuti e dall’abbandono. Da quasi quarant’anni. Ora se ne
riparla per un progetto di privatizzazione: gestione privata con la regia
pubblica. Cioè con i soldi pubblici: 23 milioni stanziati dal Cipe. Che non
sono molti ma in questa secca lo sono. Come guadagnare cioè con i soldi
pubblici.
Che
c’entra Milano con il Sud? C’entra.
La storia economica dell’unificazione è
semplice, come la semplifica Andreina De Clementi (“Di qua e di là
dell’Oceano”) e vera. L’unità aveva trovato il Sud a livelli di produttività
nella media nazionale. Dopo trent’anni i rendimenti del Sud erano crollati.
Effetto della cattiva amministrazione (del cambiamento da una non buona a una
cattiva), della gestione impolitica, e del fisco. Quindi dell’emigrazione (l’effetto fu lo stesso, fino al secondo
dopoguerra, su Veneto e Liguria).
Le infrastrutture sono tema noioso, come fossero un tema abusato. Ma i dati sulla qualità del servizio elettrico dicono che in Calabria ogni utente subisce ogni anno in media 7,2 cadute improvvise della corrente, contro le 1,9 del cliente lombardo. Senza contare gli sbalzi di tensione, che tanti motorini domestici, dalla caldaia del riscaldamento all’autoclave, mandano fuori uso.
S’incontrano nelle feste di devozione popolare
masse di persone, donne ma anche uomini, che non si vedono altrove, in piazza,
per le strade, al mercato, alla posta. Lavoratori poveri, si deve arguire, che
non hanno tempo per bighellonare e non ha la pensione né altro da spendere.
Anche in chiesa non si fa vedere.
Calabria
“Non c’è
male”, “Così e non peggio”, “Non possiamo lamentarci”. Si chieda a un calabrese
come sta, e il più delle volte la risposta è uno scongiuro: “Non c’è malaccio”, “Si tira avanti”.
Dunque i calabresi sono ebrei e non lo sanno –
per “almeno il 40 per cento”. Lo attesta Barbara Aiello, rabbina americana. La
rabbina non ha buona fama presso le istituzioni ebraiche, in America e in
Italia, ma non c’è problema a crederle. Sono anusim, dice, cioè “costretti” a frequentare la chiesa. Che lascia
intatto il principio dell’evangelizzazione, dacché non ci sono state
persecuzioni.
Barbara
Aiello è un personaggio nel paese d’origine di suo padre, Serrastretta in
provincia di Catanzaro. La Calabria è terra fertile per ogni proposta di fede,
avventista, valdese, Geova, oltre che devota ai santi e alle Madonne. Anche gli
accrediti del padre di Barbara sono molto calabresi: emigrò (nel dopoguerra) da
Serrastretta, dove aveva “operato con i Partigiani durante la Seconda Guerra
Mondiale”, diventando “un liberatore del campo di concentramento di
Buchenwald”. Un foto lo mostra suonatore di tromba (il “flicornino”) nella
banda degli emigrati italiani a Pittsburgh, The Italian Sons & Daughters of
America.
Non
abbiamo fatto in tempo a scoprirci greci che siamo dunque ebrei. Barbara Aiello
ne trova le radici nell’onomastica: Palaia, Dito, Versace, Taverna, Frisina,
Leuzzi, etc., tutti i cognomi ricorrenti in Calabria, e in quelli geografici,
Lombardo etc. (un Domenico Petito dice il suo cognome tra i più diffusi in
Israele, “ci sono Petito in tutte le maggiori città di Israele” - non nelle
campagne?)
Ma trova
a Lamezia un Lorenzo de’ Medici Gatti,
“discendenza certificata dalla nobile casata toscana per parte di padre
e da ebrei polacchi per parte di madre”, secondo “Il Sole 24 Ore” del 22
agosto, “nel curriculum un’apparizione a un reality tv”, che allo stesso
giornale promette: “Il mio gruppo (?) ha in cantiere investimenti da 16 milioni
per realizzare un residence di lusso a Nocera Terinese. Costruiremo anche una
sinagoga da 200 mila euro, destinata alla clientela russa e americana. La
rabbina celebrerà matrimoni in riva al mare”.
La terra
più selvaggia ha una storia di ospitalità. Per i monaci scappati dall’Oriente –
per l’iconoclastia, l’esicasmo, il Filioque, l’islam. Per gli ebrei, di Spagna
e d’Oriente. Per gli zingari. Anche i confinati politici non ebbero a
lamentarsi sotto il fascismo, e i gli internati nel campo di concentramento di
Ferramonti, in maggioranza ebrei.
Ha una letteratura prevalentemente dell’esilio – dell’emigrazione. Che è allo stesso tempo esiliata – dimenticata. Domenico Nunnari ne fa la constatazione in un saggio in tre puntate sulla “Gazzetta del Sud” ad agosto. La lista è lunga, a cominciare da Alvaro, che pure fu uno dei maggiori scrittori “europei” del Novecento: Misasi, Perri, Seminara, Repaci, La Cava, Altomonte, Asprea, Strati. Gli unici due scrittori con diritto di cittadinanza sono Carmine Abate e Mimmo Gangemi. Per ora.
L’emigrazione
è vissuta da questi scrittori, specie da Abate e Gangemi, come una sconfitta e
una diminuzione. Mentre è per antonomasia coraggiosa e perfino avventurosa –
uno che parte da Carfizzi è come uno che parte da Montebelluna, non è uno che
lascia il peggio per il meglio, non necessariamente, ma uno che vuole essere
libero anzitutto, per un suo progetto, anche se non precisato.
Abate,
che dell’emigrazione ha perfino fatto un’aggiornata sociologia, insieme con la
studiosa tedesca Meike Behrmann, allieva di Norbert Elias, ne “I Germanesi”,
sembra non riconciliarsi con la figura del padre. Che “preferiva” vivere,
magari solo, nel Nord Europa tutto l’anno, salvo Natale o Ferragosto, perché
voleva una vera casa al paese, un campo degno di questo nome, e gli studi per i
figli. Che erano il suo modo di vivere e di essere e non una privazione. Una
visione in cui non c’entra il barone, su cui si attarda il figlio intelligente
e colto, il latifondo, il suolo arido del marchesato, e i semi di zucca per
chewing-gum - si
fosse fatta l’edilizia popolare negli anni 1920, dopo il terremoto, magari di
casette unifamiliari come usava dopo i terremoti, la Calabria non si sarebbe
spopolata, nel marchesato, dove c’era il barone, e negli altri quattro quinti
di territorio dove la proprietà era sminuzzata.
Il
discorso del “Sud”
“Pakistani come calabresi”, spiega un ambulante
all’ombrellone accanto su una spiaggia calabrese, “no milanesi, milanesi no”. E
intende il rapporto uomo-donna. Lo dice a una donna che è madre di molti figli,
con i quali però ha urlato e si è divertita tutto il pomeriggio, incurante dei
vicini, inviando ogni tanto perentoria un larva di marito a procurare i gelati
e le patatine al bar, e ora per una mezz’ora abbondante tiene l’ambulante in
piedi sotto il sole rovente a risponderle in un faticoso italiano, senza
comprargli nulla.
Il “discorso su” (narrazione) fa testo come un imprinting, un “sentito dire” definitivo
e ineccepibile, anche se non si posseggono gli strumenti del dire e del
capre.
Mentana ha messo in campo il 26 luglio su La 7
tre big, Ferrara, Mieli e Lerner, quattro con l’economista Alesina, sulla crisi
dell’euro, ma pare abbia fatto il minimo di share,
il 4 per cento. L’argomento del “dibbattito” era che la Merkel giustamente non
deve pagare i forestali calabresi.
Il “discorso su”, la narrazione degli storici,
può fare boomerang oltre certi limiti.
leuzzi@antiit.eu
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