lunedì 27 agosto 2012

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (141)

Giuseppe Leuzzi

Ci si saluta al Sud come nel resto del mondo. Con un cenno, un suono, un’occhiata, riserbando baci e abbracci a lunghe lontananze. Ma avviene che i settentrionali trovandosi al Sud, poiché si sa che al Sud la gente si bacia e abbraccia sempre, dispensino baci e abbracci a ogni incontro. Anche tre volte in un giorno, se avviene d’incontrare la stessa persona la mattina, il pomeriggio e la sera. È un grosse corvée per i meridionali – che, in effetti, sono indolenti.


Grande dibattito a Milano sulla Grande Brera. Su come cioè tirare le infinite bellezze raccolte a Brera dai rifiuti e dall’abbandono. Da quasi quarant’anni. Ora se ne riparla per un progetto di privatizzazione: gestione privata con la regia pubblica. Cioè con i soldi pubblici: 23 milioni stanziati dal Cipe. Che non sono molti ma in questa secca lo sono. Come guadagnare cioè con i soldi pubblici.
Che c’entra Milano con il Sud? C’entra.

La storia economica dell’unificazione è semplice, come la semplifica Andreina De Clementi (“Di qua e di là dell’Oceano”) e vera. L’unità aveva trovato il Sud a livelli di produttività nella media nazionale. Dopo trent’anni i rendimenti del Sud erano crollati. Effetto della cattiva amministrazione (del cambiamento da una non buona a una cattiva), della gestione impolitica, e del fisco. Quindi dell’emigrazione  (l’effetto fu lo stesso, fino al secondo dopoguerra, su Veneto e Liguria).

Le infrastrutture sono tema noioso, come fossero un tema abusato. Ma i dati sulla qualità del servizio elettrico dicono che in Calabria ogni utente subisce ogni anno in media 7,2 cadute improvvise della corrente, contro le 1,9 del cliente lombardo. Senza contare gli sbalzi di tensione, che tanti motorini  domestici, dalla caldaia del riscaldamento all’autoclave, mandano fuori uso.

S’incontrano nelle feste di devozione popolare masse di persone, donne ma anche uomini, che non si vedono altrove, in piazza, per le strade, al mercato, alla posta. Lavoratori poveri, si deve arguire, che non hanno tempo per bighellonare e non ha la pensione né altro da spendere. Anche in chiesa non si fa vedere.

Calabria
 “Non c’è male”, “Così e non peggio”, “Non possiamo lamentarci”. Si chieda a un calabrese come sta, e il più delle volte la risposta è uno scongiuro: “Non c’è malaccio”, “Si tira avanti”.

Dunque i calabresi sono ebrei e non lo sanno – per “almeno il 40 per cento”. Lo attesta Barbara Aiello, rabbina americana. La rabbina non ha buona fama presso le istituzioni ebraiche, in America e in Italia, ma non c’è problema a crederle. Sono anusim, dice, cioè “costretti” a frequentare la chiesa. Che lascia intatto il principio dell’evangelizzazione, dacché non ci sono state persecuzioni.
Barbara Aiello è un personaggio nel paese d’origine di suo padre, Serrastretta in provincia di Catanzaro. La Calabria è terra fertile per ogni proposta di fede, avventista, valdese, Geova, oltre che devota ai santi e alle Madonne. Anche gli accrediti del padre di Barbara sono molto calabresi: emigrò (nel dopoguerra) da Serrastretta, dove aveva “operato con i Partigiani durante la Seconda Guerra Mondiale”, diventando “un liberatore del campo di concentramento di Buchenwald”. Un foto lo mostra suonatore di tromba (il “flicornino”) nella banda degli emigrati italiani a Pittsburgh, The Italian Sons & Daughters of America.
Non abbiamo fatto in tempo a scoprirci greci che siamo dunque ebrei. Barbara Aiello ne trova le radici nell’onomastica: Palaia, Dito, Versace, Taverna, Frisina, Leuzzi, etc., tutti i cognomi ricorrenti in Calabria, e in quelli geografici, Lombardo etc. (un Domenico Petito dice il suo cognome tra i più diffusi in Israele, “ci sono Petito in tutte le maggiori città di Israele” - non nelle campagne?)
Ma trova a Lamezia un Lorenzo de’ Medici Gatti,  “discendenza certificata dalla nobile casata toscana per parte di padre e da ebrei polacchi per parte di madre”, secondo “Il Sole 24 Ore” del 22 agosto, “nel curriculum un’apparizione a un reality tv”, che allo stesso giornale promette: “Il mio gruppo (?) ha in cantiere investimenti da 16 milioni per realizzare un residence di lusso a Nocera Terinese. Costruiremo anche una sinagoga da 200 mila euro, destinata alla clientela russa e americana. La rabbina celebrerà matrimoni in riva al mare”.

La terra più selvaggia ha una storia di ospitalità. Per i monaci scappati dall’Oriente – per l’iconoclastia, l’esicasmo, il Filioque, l’islam. Per gli ebrei, di Spagna e d’Oriente. Per gli zingari. Anche i confinati politici non ebbero a lamentarsi sotto il fascismo, e i gli internati nel campo di concentramento di Ferramonti, in maggioranza ebrei.

Ha una letteratura prevalentemente dell’esilio – dell’emigrazione. Che è allo stesso tempo esiliata – dimenticata. Domenico Nunnari ne fa la constatazione in un saggio in tre puntate sulla “Gazzetta del Sud” ad agosto. La lista è lunga, a cominciare da Alvaro, che pure fu uno dei maggiori scrittori “europei” del Novecento: Misasi, Perri, Seminara, Repaci, La Cava, Altomonte, Asprea, Strati. Gli unici due scrittori con diritto di cittadinanza sono Carmine Abate e Mimmo Gangemi. Per ora.
L’emigrazione è vissuta da questi scrittori, specie da Abate e Gangemi, come una sconfitta e una diminuzione. Mentre è per antonomasia coraggiosa e perfino avventurosa – uno che parte da Carfizzi è come uno che parte da Montebelluna, non è uno che lascia il peggio per il meglio, non necessariamente, ma uno che vuole essere libero anzitutto, per un suo progetto, anche se non precisato.
Abate, che dell’emigrazione ha perfino fatto un’aggiornata sociologia, insieme con la studiosa tedesca Meike Behrmann, allieva di Norbert Elias, ne “I Germanesi”, sembra non riconciliarsi con la figura del padre. Che “preferiva” vivere, magari solo, nel Nord Europa tutto l’anno, salvo Natale o Ferragosto, perché voleva una vera casa al paese, un campo degno di questo nome, e gli studi per i figli. Che erano il suo modo di vivere e di essere e non una privazione. Una visione in cui non c’entra il barone, su cui si attarda il figlio intelligente e colto, il latifondo, il suolo arido del marchesato, e i semi di zucca per chewing-gum - si fosse fatta l’edilizia popolare negli anni 1920, dopo il terremoto, magari di casette unifamiliari come usava dopo i terremoti, la Calabria non si sarebbe spopolata, nel marchesato, dove c’era il barone, e negli altri quattro quinti di territorio dove la proprietà era sminuzzata.

Il discorso del “Sud”
“Pakistani come calabresi”, spiega un ambulante all’ombrellone accanto su una spiaggia calabrese, “no milanesi, milanesi no”. E intende il rapporto uomo-donna. Lo dice a una donna che è madre di molti figli, con i quali però ha urlato e si è divertita tutto il pomeriggio, incurante dei vicini, inviando ogni tanto perentoria un larva di marito a procurare i gelati e le patatine al bar, e ora per una mezz’ora abbondante tiene l’ambulante in piedi sotto il sole rovente a risponderle in un faticoso italiano, senza comprargli nulla.
Il “discorso su” (narrazione) fa testo come un imprinting, un “sentito dire” definitivo e ineccepibile, anche se non si posseggono gli strumenti del dire e del capre.   

Mentana ha messo in campo il 26 luglio su La 7 tre big, Ferrara, Mieli e Lerner, quattro con l’economista Alesina, sulla crisi dell’euro, ma pare abbia fatto il minimo di share, il 4 per cento. L’argomento del “dibbattito” era che la Merkel giustamente non deve pagare i forestali calabresi.
Il “discorso su”, la narrazione degli storici, può fare boomerang oltre certi limiti.

leuzzi@antiit.eu

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