astolfo
Capitale – È “tenace avarizia e avidità”: il Gattopardo di Lampedusa lo fissa in un’istantanea guardando il consuocero arricchito Sedara.
Il suo meccanismo è forse impensabile per essere semplice: accumulare spendendo. Creare ricchezza dissipandola. Già dal tempo di Crasso e i pubblicani. I quali erano capaci, dalla Spagna alla Licia, quando arrivava l’imperatore, di erigergli un tempio, un teatro, una biblioteca, un ginnasio, un arco di trionfo. Veri, di pietra e marmo e non di cartapesta. Ben più cari di una Carnegie Hall, che poi è un investimento e non un monumento. Facendo tutti contenti, l’imperatore, i cavatori, i sacerdoti nei templi e le vestali, nonché i costruttori edili. E questo per le virtù moltiplicative del denaro, che non è il nummus e non è l’oro o l’argento del conio, né il biglietto di banca, il certificato del governatore dell’istituto d’emissione, ma un principio attivo. Che la penuria rende produttiva, di reddito e ingegno applicato, di tecniche, salute, piaceri.
Per il resto si scimmiotta la religione del capitale: Lafargue, il genero ozioso di Marx, il Tirteo francese Rouget de Lisle, il conte Saint-Simon. Che Büchner trovò all’osteria a Strasburgo, accanto al Duomo, in testa un berretto rosso, al collo una sciarpa di cashemere, in giubba corta tedesca e pantaloni aderenti, sul panciotto un Rousseau ricamato. Non il conte, un suo seguace: i sansimonisti, avendo avuto nel conte il père, spiega Büchner ai suoi, erano alla ricerca della mère, nella forma più generica di femme, e per essa s’addobbavano. Anche nella femme, luogo laico, c’è una forte origine del capitale.
Imperialismo – L’antimperialismo di Lenin è il manuale del governo borghese, gli ricorda che l’uomo d’affari tende a mettersi il mercato sotto i piedi.
Il più vasto è sicuramente quello odierno, della libertà. L’America ha un’idea forte del mercato, della propria libertà, che scuote Hobson e il vecchio imperialismo. A meno di non tornare al dibattito che si fece in Atene su Atene, se la democrazia era imperialista su spinta dei ricchi oppure del popolo. Bisognerebbe dire del popolo, e non ha senso. L’America è piena di radici, ecco che, benché trascuri la genealogia. Per la cittadinanza. Anche i poveri si sentono protetti. Forse, dice Arendt, per non avere mai vissuto il totalitarismo e il terrore.
Gli Usa esercitano l’imperialismo, e l’antimperialismo. Con più intelligenza che altrove, romantici con più sentimento, violenti senza pari terribili. Il tutto è antico romano, benché il posto sia di libertà recente - sotto le chiappe della Libertà era la dogana carceraria degli immigrati. Bisogna tornarci su: la nazione più solida è quella più composita, l’America, malgrado l’eccidio degli indiani, il razzismo impunito, l’imperialismo compulsivo. Nel segno della libertà.
L’America ha fatto della libertà strumento di espansione, come i romani antichi, che anche loro fingevano di non avere abbandonato la libertà nell’impero. A spese dell’Europa imperiale e coloniale dapprima. Ora a spese degli stessi liberati, un terzomondista questo lo vede in ogni canto ogni giorno. Qui si parla della libertà moderna ovviamente, l’Ottantanove, il suffragio universale, i diritti dell’uomo eccetera. La libertà della Rivoluzione la Francia ridusse a piccola cosa, a fronte della libertà di tutti gli altri paesi, la Germania compresa, e l’Italia, la cui indipendenza, se non la libertà, pure la Francia direttamente aiutò. Il miracolo francese al Congresso di Vienna fu di diventarvi il lievito dell’Europa tutta, più che di uscirne intatta e prospera malgrado la sconfitta. Ma durò poco: la libertà dei popoli europei si trasformò in nazionalismo, esclusivo, feroce, all’insegna dei primati, morali, civili, eccetera. Con la libertà gli Usa hanno slombato nelle due guerre metà Europa, compresa la diplomazia palese, e nel ‘56 le alleate Francia e Gran Bretagna in Africa e in Asia.
Opinione pubblica – Quando un atleta non vince all’Olimpiade i giornalisti gliene fanno una colpa – sempre i giornalisti fanno una colpa all’atleta, alla squadra, alla bellezza, al genio, ma all’Olimpiade si nota di più, perché è in diretta, a caldo. Come se l’atleta avesse voluto perdere, non si fosse impegnato al meglio, non avesse lavorato per settimane e mesi alla gara. Come se l’atleta fosse stato solo con se stesso invece che in gara con altri altrettanto agguerriti atleti.
È un vizio non soltanto italiano – l’Olimpiade consente anche questo, di sintonizzarsi sullo stesso evento su altre lingue di altri paesi. Come se il giornalismo avesse vocazione censoria invece che rappresentativa. È il virus dell’“opinione pubblica”. L’infezione viene non dalla proprietà o dagli interessi nascosti, dall’a chi giova, dallo schieramento, che comunque è palese, ma da una funzione giudicatoria che persone senza alcun titolo si danno. Nel nome della libertà di opinione e informazione. Uno, non il solo, effetto perverso della libertà: l’opinione pubblica vi si radica e la tradisce.
Si legge il giornale con apprensione. È l’effetto che il dandy Baudelaire avvertiva cupo, senza spiegarselo: “Stamattina ho avuto l’imprudenza di leggere alcuni giornali. Improvvisamente, un’indolenza del peso di venti atmosfere si è abbattuta su di me, e mi sono fermato davanti alla spaventosa inutilità di spiegare una qualsiasi cosa a chiunque”.
Rivoluzione – La cultura è la sola rivoluzione del Settecento che sia sopravvissuta, all’industria, al capitale, alla patria, al razzismo, all’imperialismo, pure negli Usa. “Il pensiero di quel che sarebbe l’America\Se i classici avessero larga diffusione\ Mi toglie il sonno”, scrisse Pound al giudice che condannò l’Ulisse per oscenità.
Socialismo Usa - L’America avrebbe fatto felice Marx: non c’è legge o etica che il ruolo non determini, cioè il denaro. A lungo, a fine Ottocento, si sono anche ipotizzati gli Usa come terreno privilegiato per il socialismo. L’America socialista Bellamy l’ha pure scritta. Ma non è fantasia, il paese è maturo. Oggettivamente. Altrimenti salta Marx: vi si può vivere liberi, schiavi, e perfino contenti. A meno dell’imperialismo, che degli Usa un imprinting – vocazione, identità, fede.
A meno dell’imperialismo, Tocqueville dovrebbe riscriversi: l’America ha tutto per essere socialista, forza, ingenuità, indifferenza, seppellisce i morti a beneficio dei vivi, abbatte le case ogni pochi anni, e si taglia i ponti, nomi, origini, parentela, senza accumulo. Sono uguali pure le facce: taglia, prognato, sorriso, linguaggio paiono fatti con lo stampo. Poi c’è il bombardiere, parte dell’imperialismo ma anch’esso livellatore: la storia dell’impero Usa, che sarà stata la cosa migliore del terrificante Novecento, se è vero che difende la libertà, e comunque non ha gulag, si fa col bom-bardiere. Il taglio è netto con l’imperialismo britannico, che si voleva localistico, utilizzatore e anzi difensore delle varietà. Ora si punta alla distruzione delle differenze. La pizza è subito americana, e il vino, e sono uniformi, non buoni né cattivi, ma non altrimenti definibili o conformabili. Mentre i film stranieri, in quella patria del cinema, non si vedono, se non si rifanno americani.
L’omogeneità, riflesso della merce di massa e quindi del gusto, che è l’ordito culturale del monopolismo, obbedisce a tutti gli effetti ai canoni di Marx, ed è a tutti gli effetti egualitaria. Monopolio e impero si affermano attraverso l’uguaglianza, e non per beffa, è un progetto politico - che Tocqueville già ai suoi tempi trovò intollerabile: voleva addolcirlo con la democrazia greca, dei belli-e-buoni di spirito.
astolfo@antiit.eu
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