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sabato 11 agosto 2012

Il mondo com'è - 105

astolfo 
Effimero – Così qualificato spregiativamente da Beniamino Andreatta quando divenne ministro del Tesoro con Spadolini nel 1982 e cominciò a tagliare le spese degli enti locali fuori controllo (“Si paghino l’effimero”), fu l’invenzione nel 1976 di Renato Nicolini, assessore alla Cultura a Roma. Che aprì le piazze e ogni spazio urbano comune, i monumenti, i viali, i prati, le grandi ville pubbliche, alla fruizione dei cittadini per spettacoli e l’impiego del tempo libero. Del tempo a occhi aperti. Un’idea di grande impatto urbanistico, che mutò la sociologia e la fruizione delle città rapidamente in tutta Europa. Compresi i paesi del Centro-Europa che meno avevano praticato le piazze e ogni altro spazio di vita in comune. Nulla a che vedere con le isole pedonali, altra invenzione romana, del primo centro-sinistra, poi furono trasposte in centri commerciali. Prima dei centri commerciali propriamente detti, successivi, i “non luoghi” per antonomasia della contemporaneità. 
 
Europa – L’Europa certo finirà, come tutto. Doveva finire sotto Mosca, l’America l’ha salvata. Ora potrebbe finire sotto i gialli, perché no - Céline già li temeva, erano la sua ossessione prima degli ebrei. O i marziani, i mussulmani, gli americani, del Sud. È paradossale per l’Europa inabissarsi con la Germania, che a lungo e con furia se n’è voluta dissociare, ma la storia, direbbe Benedetto Varchi, “vive quasi infinite volte”, in infiniti modi. E in infiniti modi muore, le storie finiscono. L’Europa stessa, piccola ma ricca, la più ricca al mondo, e presuntuosa, ora vuole farsi perdonare, ma non sa di che, ama compatirsi. Come una vecchia baldracca, senza più attrattive, che sospira sulla porta di farsi fare generosa da ognuno che passa. “L’Europa non ha più misteri, nessuna profondità, è morta”, disse nel 1936 Lou Andreas-Salomé, settantacinquenne lucida e vigorosa, levatrice di pensatori e poeti. Nazionalismo e imperialismo ne sono il cuore, figli dell’Ottantanove: missione del dotto, fardello, destino, civiltà. I tedeschi sono venuti ultimi a questi inciuchimenti, e recalcitranti. Non c’è altra storia. L’Europa ne ha tratto profitto, ma ora non se la fila più nessuno. Giusto quanto basta per farle spendere soldi che ha accumulato. 

 Germania – “La Germania è cresciuta con l’Europa”, va ripetendo Martin Schulz, il presidente del Parlamento europeo, per esorcizzare lo sciovinismo tedesco, come sempre benevolente. Ma si può solo intendere in questo senso: la Germania si è arricchita con l’Europa. In altri non è possibile: la Germania, benché sempre benevolente, non guarda fuori. Con un misto di ammirazione e invidia (deprecazione). Si prenda l’Italia. Non c’è al mondo popolazione (e cultura) più filo italiana di quella tedesca. Che dell’Italia gusta e copia la musica, la pedagogia, la cucina, lo stile di vita (informale). Ma a suo agio si trova nel mondo cupo del Centro-Europa, anche se affollato di slavi, rom, magiari, e tedeschi non graditi. Che la scimmiottano. E, perché no, in fondo pensa di fare a meno dell’Italia, come di un accessorio, confondendola magari col sole o con le canzoni, di cui pure è tanto appassionata. Sostituibile con Essaouira e altri luoghi ameni, dove non si canta ma c’è il catering fresco di Germania. La Germania è sempre benevolente, ma intollerante.

 Giornalismo– Il migliore è il non detto. Quello che si evita di scrivere. È una professione censoria? Anche. Ma il miglior giornalismo è quello che si evita di leggere, più che di scrivere. È immaginario. L’opinione pubblica è immaginaria. 

Imperialismo – La missione fu a lungo di civiltà. Nonché in Africa, ancora in Algeria, ancora a metà Ottocento. Gli scienziati politici inneggiavano alla conquista. Quando già si sapeva. Thackeray, l’autore della “Fiera della vanità”, dedicava a Abdelkader “Il falco in gabbia”, un’ode, e si fondavano in America cittadine El-Kader, in onore del Giorgio Washington dell’Algeria. Il “Manifesto dei comunisti” era in tipografia, quando Engels disse “la conquista dell’Algeria un evento fausto e importante per il progresso della civiltà”. Tocqueville concordava, seppure all’inizio dell’impresa, e quando Bugeaud non aveva fatto sentire la sua mano pesante di generale napoleonico, rapinatore, massacratore e, pare, violentatore – ma il conte in anticipo avallava, nel 1841, da esperto al Parlamento di Parigi, la distruzione delle coltivazioni e delle scorte alimentari, la distruzione dei villaggi, e le deportazioni di massa, vecchi, donne e bambini inclusi, in campi di concentramento, se non già di sterminio, che Bugeaud si apprestava a lanciare. E tuttavia non erano i beduini “briganti”, “taglieggiatori” e “mercanti di schiavi”, come diceva Engels a fine 1947? Lo erano. Robert Byron, “Viaggio in Afghanistan”, subisce questo dialogo: “A quale governo appartenete?” “Al governo dell’Inglistan.” “Inglistan? Che paese è?” “È la stessa cosa dell’Indostan.” “L’Inglistan è una parte dell’Indostan?” “Sì.” - Potrebbe essere stato. Ma cosa sarebbe l’India se non fosse stata inglese? Non la più grande democrazia del mondo. E forse neanche in via di sviluppo, zavorrata dalle caste e gli odi religiosi, umida, sporca. Alla stessa maniera di Kipling se non fosse nato in India, se fosse cresciuto nella cameretta di “A lume spento” in patria.

Italia – È Roma e la chiesa. Anche. Ancora molto, malgrado la frontiera eretta al Tevere dallo Stato Italiano dei massoni, che ora si dice abbia “liberato” la chiesa dall’identificazione. In Italia ne ha presente il riferimento solo Galli della Loggia. Fuori d’Italia l’identificazione è luogo comune. Specie nei paesi divisi dalla Riforma, quali la Germania, l’Olanda e la stessa Gran Bretagna. In Germania l’antitalianismo è luterano. Nell’“Ulisse” Joyce fa dire al suo alter ego giovane e filiale Stephen: “Io sono il servo di due padroni, uno inglese e uno italiano. Lo Stato imperiale Britannico e la Santa Chiesa cattolica Apostolica Romana”. Arbasino, il social scientist degli anni del terrorismo, fu antropologo in casa vent’anni fa coi “Paesaggi italiani”, capace di registrarvi e decifrarvi spezzoni di comportamenti e di linguaggi a lui estranei. Al meglio, vi era il Flaubert delle frasi fatte (anche Flaubert si pretendeva sommerso, pretendeva che le sue cose si scrivessero da sé), intervallate da estratti tragicamente limpidi delle ultime lettere di Aldo Moro - nonché dal raffronto scandaloso (tragico) tra l'ultima lettera di Moro (“il mio sangue ricadrà su di voi, sul Partito, sul Paese”) e ‘'ultima lettera di Maria Antonietta di Francia. Moro, chiosa Arbasino, dimentica tra l’altro di maledire i suoi assassini. E nemmeno venti anni sono passati, da quando “il papa si metteva in ginocchio davanti alle Brigate Rosse”. Esemplare di un tipo molliccio di umanità è anche il personale ritorno a Milano dello scrittore, intitolato “Stagioni morte”. L’Italiano, al meglio, è insomma del tipo salveminiano, anche se Arbasino è portato, per formazione e ricordi personali, più verso il tipo crociano. La diatriba Croce-Salvemini, fra il corpo sano con bubboni, o il corpo irrimediabilmente malato - che a occhio, senza essere medici, non avrebbe ragione di essere, se non per la ricreazione delle anime belle, giacché‚ dopo tutto l'Italiano vive e lavora. Arbasino fa molto credito a Pasolini delle “Lettere luterane”, l’ultimo scritto edito in vita: si fa strada l’istinto di morte. La depressione potrebbe venire da lontano. Oppure no. Potrebbe venire dall’abbandono della robustezza rustica per un vuoto modello urbano. Sempre il contadino in Italia è, come diceva Sismondi già nel 1809, “tanto superiore al cittadino quanto questi lo è al gentiluomo”. Approssimazione per approssimazione, infatti, la censura colpisce da sempre in Italia anche il gentiluomo. Che Machiavelli prima di Salvemini ha bollato: “Gentiluomini sono chiamati quelli che vivono delle rendite delle loro possessioni... Questi tali sono perniziosi in ogni repubblica”. Altrove, per esempio in Inghilterra, la civiltà è posta a credito del gentiluomo, per non avere invidie o rivalse da far valere – Tocqueville ne faceva il perno dell’ “impero” britannico, della superiorità costituzionale e morale dell’Inghilterra nel primo Ottocento. Galli della Loggia, che pure spazza allegramente via frasi fatte e stereotipi, e riscopre infine il carattere notabilare, fortemente oligarchico, della nostra borghesia, imputa il limite a “una complessiva forte subalternità del modello borghese a quello nobiliare”. Proprio quella subalternità che, dove s’è realmente data, in Inghilterra, ha prodotto il radicalismo tory e ha dato, a giudizio di Tocqueville, molti vantaggi a quella democrazia. L’oligarchia è tenuta su dalle banche, i modelli culturali della nostra borghesia sono i palazzinari e mastro don Gesualdo, con le rubinetterie d’oro. Le buone maniere non hanno mai fatto male a nessuno. L’Italia vi avrebbe avuto un ottimo serbatoio, paese urbano da tempo immemorabile. Poteva farne la sua specificità, è un paese unico in fatto di tradizioni, non fossero essere negate per una falsa democrazia. Gli ex mezzadri toscani che alla Borsa merci di Firenze dietro piazza della Repubblica trattavano negli anni 1950-60 le loro merci come al mercato, in capannelli, tra un bicchiere di vino e l’altro, rubizzi, le mani callose, avevano mediato dai padroni i vestiti e il vernacolare misto, col giusto grado di realismo. Lo sgonfiamento del debito pubblico, il “tesoro nascosto delle famiglie italiane” (Guido Carli), introdurrà delle incertezze? 

astolfo@antiit.eu

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