giovedì 30 agosto 2012

Letture - 108

letterautore

Dante – È navigante. “Era già l'ora che volge il disio \ai navicanti e 'ntenerisce il core”. O: “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io \fossimo presi per incantamento, \e messi in un vasel ch’ad ogni vento \per mare andasse al voler vostro e mio”. O “lo gran mar de l’essere”. E la sua chiusa Firenze apostrofa: “Che per mare e per terra batti l'ali”.

È favoloso romanziere (narratore). Anche nelle opere saggistiche, sul volgare, sulla monarchia.

È conservatore? Marco Santagata ripropone (“Dante, il romanzo della sua vita”) l’improponibile quesito. Distinguendo acutamente, tra il Dante avanguardista (lingua, pittura, architettura) e il Dante retrogrado (società, politica). Qui reazionario più che conservatore: spregiatore della finanza, l’industria, il commercio, e delle insorgenze democratiche, a favore degli statuti feudali, e dei due “soli”, il papa e l’imperatore ognuno nel suo recinto.
È una schizofrenia che Pound, il dantista, ha riproposto nel primo Novecento. Ma in realtà non lo è: l’innovatore massimo Dante non è un lodatore del buon tempo antico quanto della pace e della giustizia. Nel concetto, poi perento, ma allora e ancora per qualche secolo sentito e diffuso, e rivoluzionario, dell’unità. Dell’unità imperiale e della cristianità, che costituivano un tutt’uno. Frances Yates lo attesta, ma anche la lettura di Dante – un po’ come Pound, che finì fascista per volersi jeffersoniano, americano rivoluzionario cioè.

Discorso – Petros Markaris ha scritto i due ultimi romanzi “Prestiti scaduti” e “L’esattore”, sulle cause della crisi del suo paese: le banche, l’evasione fiscale, la corruzione. Facendo morire banchieri e evasori (per “condono tombale”), mentre vitupera la Germania. Ma questa con rispetto. E assumendo contro la Grecia tutte le ingiurie della “Bild” e dei tedeschi ai greci – ai greci più che alla Grecia. “In Grecia chi lavora rimane al palo”, in Grecia si ruba, in Grecia la politica è corrotta, in Grecia la burocrazia è corrotta. Solo in Grecia.
Il discorso, la “narrazione” degli storici, fa la realtà. Fra la verità delle cose, perfino della natura, minerali inclusi, o dell’anagrafe, o del Dna. È l’opinione pubblica. Il “discorso” più spesso consacra i luoghi comuni – nozione trascurata che andrebbe ripresa, essendo oggi ben più viva e pervasiva che centocinquant’anni fa al tempo di Flaubert. Un’opinione che è quindi un falso al quadrato: la nostra “realtà” è doppiamente falsa.

Giallo – Si fa con materiali di scarto: alcol, velocità, avidità, invidia, stupidità. Con scene da serie B: la scazzottata o sparatoria, la fuga con inseguimento, il pedinamento, l’agguato, la macelleria. Con forme logiche basiche e non concludenti: l’induzione, la deduzione (Sherlock Holmes si salva con la sorpresa, l’inatteso).
Hitchcock li fa diversi, ma sono thriller, non sono gialli.

È la sorpresa. La vuole ogni poche pagine. È il segreto dei giallisti seriali, Camilleri, Simenon, A. Christie: riciclare inflessibili i cliché (manie, complicità, convenevoli, caratteri), e spiazzarli con la sorpresa.

Leggere – È ricerca, e scoperta. È grata quando la scoperta scatta, l’interesse è in qualche modo esaudito. Il lettore non riscrive l’autore o l’opera, li incontra. Per una serie di contorni imprevedibili – ogni lettura dello stesso testo è diversa, per situazioni proprie del singolo lettore, per l’aria del tempo.

È crearsi dei desideri.

Viaggiare, dice Norman Douglas che ha sempre viaggiato, consente di leggere poco, e meglio. I libri importanti. Che si leggono magari per caso. Senza correre dietro alle novità. Ma neppure questo è vero, si legge quello che capita, ed è il peggio di tutto, inevitabilmente, si legge qualsiasi cosa, rapidamente, e si dimentica. Sarà anche per questo che i viaggiatori propalano cazzate, Genovesi, per quanto vi si applichi nelle “Lettere accademiche”, non sa farne il campionario. E si finisce per rimpiangere di essere partiti: viaggiare è inesauribile, e inutile. È stanchezza? Anche il viaggiatore sentimentale diventa stanco della sua curiosità – per primo il pastore Sterne, che viaggiò unicamente per motivi di salute.
Leggere, operazione attiva e non passiva quale il viaggiare, si può solo da fermi.

Traduzione – Pone il problema della “lettura”. Doppiamente. Come immedesimazione in un autore – un’estensione dell’arte della conversazione. O del principio del dialogo, il fondamento della socialità, la casa della personalità. E come esercizio delle “strutture sintattiche”: le parole non si combinano in modo statistico, della meccanica statistica, ma per una matematica più complessa, che individui relazioni tra le parole (sintassi) e ponga le diverse sintassi delle lingue “naturali” in una relazione significativa (ordinata).
Ha forse per questo natura inafferrabile, sotto l’apparente funzionalità, sfuggente. La matrice delle sintassi è sconosciuta. Il linguista Andrea Moro la compara (“Parlo, dunque sono”, p. 69) a “un «effetto ottico» negativo”, un lampo, un miraggio.

Viaggiare - Il Medio Evo non vedeva di buon occhio ebrei erranti e studenti vagabondi. Ma era per questo il Medio Evo, che un apprendistato vagante poi imponeva agli artigiani, la classe produttrice. E forse neanche la morte è quiete, la resurrezione dei corpi è il mistero più affascinante. Il viaggio di Ulisse inizia dopo la discesa all’inferno. Verso una patria che è un’isola sassosa. Omero a ragione, dice l’asino di Apuleio, quando volle descrivere un uomo d’impareggiabile saggezza, immaginò che egli l’avesse acquisita visitando molte città e conoscendo vari popoli. Lo dice Dante in realtà – leggendo Apuleio? Ma poi tutti scappano da Troia, vincitori e vinti, dopo dieci anni di guerra avevano bisogno di cambiare.
Si viaggia anche nell’immobilità, o nell’isolamento, Robinson Crusoe è un viaggiatore per due terzi del romanzo. È anzi impensabile quante cose vedono quelli che non si muovono. “Alle mie solitudini vado, dalle mie solitudini vengo”, direbbe Lope de Vega. Rischiando però di segnare il passo, mentre il vero viaggiatore si sposta. “Perché affannarsi nei viaggi?”, si chiede Michaux, che viene dal Belgio, il plat pays, “posso arrangiarmelo da me, il loro paese”, ma lui è uno che ha sempre viaggiato, in tutti i modi.

I benefici del viaggio sono quelli di un’esperienza inutile, si sa. Il viaggiatore, avendo visto più cose, torna estraneo. E più spesso non è atteso, anche se non ha lasciato cattiva memoria, tutto come in Omero. Ma viaggiare è utile, “fa lavorare l’immaginazione”, Céline decolla così - “fuggiasco logico e autentico” a detta di Alvaro, al cui parere “i viaggi prolungano la vita”. Per Gide “la percezione comincia dove cambia la sensazione, da qui la necessità del viaggio”. Gide lo diceva tra i ragazzi di Biskrà, ma è vero di ogni sensazione. Anche perché viaggiare è una forma dell’invenzione, dai tempi di Omero è inventare, le stesse cose viste o vissute. Sia pure nella specie del “sapere amaro”, le assonanze di cui Baudelaire si compiaceva, di suoni e di significati. Perfino travel, che in francese, castigliano, catalano, portoghese, e in numerosi dolenti dialetti italiani significa travaglio, per gli inglesi diventa dilettarsi vagabondando, strascico dell’impero. Primavera sacra era nell’uso pelasgico la migrazione dei giovani alla ventura, sotto la guida di un animale sacro, che il contatto aveva mantenuto più diretto con la natura, un picchio verde, un orso, un lupo - il mito greco è molto poco greco: non si possono a-mare le mitologie, che sono classificazioni, di dei e santi che si ricordano per una sola azione, la passione unica che è ripetizione, spaventosa.

Viaggiamo soprattutto quelli del sangue del gruppo B, zingaresco. Ma non sempre bisogna partire, se non simbolicamente. Basta l’animo. “Qui e in nessun luogo è l’America”, direbbe il Lotario del “Meister”. Il viaggio è la predisposizione al viaggio, il cuore sgombro. Altrimenti si può finire come Ulisse, che dormendo si lasciò sfuggire la sua Itaca, che cercava. O come Magellano, che attraversò il Pacifico, pieno di isole, e non ne vide nessuna. Lo spostamento, la lontananza di migliaia di chilometri, non c’è in quell’esperto mentore di luoghi diversi e viaggi che è Walter Benjamin, non è d’obbligo: lo spostamento è solo ragionare di sé a se stessi - se non che la memoria ha in breve colmato la sua sor-presa, tra Proust e Benjamin, la narrazione della memoria, fino all’orlo, intenibile, mai genere fu così subito battuto e svuotato.

letterautore@antiit.eu

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