Profondo e semplice, un trattatello “umbertechiano”. Siamo “parole incarnate”, e liberi di dare nomi (creare parole): “La facoltà di dare nomi è il vero big bang che ci riguarda” (“le costellazioni, le sinfonie ci sono solo perché ci siamo noi a guardare e ascoltare… Noi siamo parte del dato”, noi spettatori e ascoltatori). E anche Dio: “È il Dio in ascolto il Dio che crea”. Siamo “a immagine e somiglianza” di Dio, che nessuno ha mai visto, forse perché “capaci di dare dei nomi” – meglio che “vedere”? Che Dio accetta e fa propri.
Ma poi involuto, inevitabilmente, come ogni opera di linguistica. Che più della fisica potrebbe portarci al big bang, con creazione oppure no. Se non fosse ferma a Aristotele, anzi all’innatismo di Platone, da due millenni e mezzo. Più che altro, si può dire per ora, siamo qui per parlare. Anche se non sappiamo di che.
Andrea Moro, Parlo dunque sono, Adelphi, pp. 104 € 7
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