Giuseppe Leuzzi
Tra i compagni di cella del patriota Settembrini a Santo Stefano c’erano due calabresi. Uno di settantacinque anni, alto, magro, autore di trentacinque omicidi, che parlava “rado e assennato”. E il brigante Mascariello, canuto ma robusto come un toro, che vantava la vita del bandito, temuto da tutti. In lite coi compagni, si era rifugiato infine da un romito. Qui era stato catturato: non aveva avuto cuore di sparare ai gendarmi. Che lo condussero in paese su un asino, per lui segno di distinzione, e un berretto con la scritta “il famoso Mascariello”. Quando un ergastolano fu ucciso che gli aveva rubato le salsicce si rallegrò “oltremisura”: fece avere acquavite all’omicida e lui steso si ubriacò.
Vengono i pentiti dal diritto inglese? Ci sono nel processo a Wilde, e anzi sono quelli fanno condannare lo scrittore e Alfred Taylor. Prostituti e prosseneti che ne testimoniano le pratiche sodomitiche da “testimoni del regina” – c’era ancora Vittoria. Vengono cioè beneficiati penalmente e anzi mandati liberi perché denunciano correi. Senza dover mutare natura e condizione.
Clamore a Milano per le retate, anche se ormai periodiche, dei “locali” della ‘ndrangheta. Che non sono appartamenti ma persone, rappresentanti di ignote mafie calabresi. Delinquenti forse, ma roba da poco.
Si spara per le strade di Milano per la cocaina. Di cui la città è la più grande consumatrice mondiale pro capite. Con killer super addestrati. In scene da film. Ma non se ne fa sociologia: la cocaina a Milano non esiste. Forse perché non è calabrese?
Manomorta
Si potrebbe riscrivere la storia dell’Italia nell’ottica della manomorta. Del perché l’Italia non ha avuto e non ha una borghesia. Responsabile seppure inutile. Per l’appropriazione a vile prezzo dei beni della chiesa e del popolo da parte della famelica borghesia della nuova Italia. Non propriamente laica.
Nel “Gattopardo” la manomorta è “il patrimonio dei poveri”. Anche nelle “Lettere” di Pasquale Villari del 1862, a ridosso dell’unificazione e dell’applicazione delle leggi eversive: le rendite mantenevano i poveri e i malati bisognosi. Se ne appropria la borghesia, sotto il pretesto dell’anticlericalismo, e ogni sua funzione sociale è cancellata, se non sotto le specie dell’avidità e la corruzione.
Non è Schadenfreude reazionaria. Fu la prima legge dell’Italia unita, l’applicazione delle leggi eversive piemontesi. E fu il primo ministro delle Finanze dell’Italia unita, Pietro Bastogi, a imporre la manomissione. Nel 1861 Bastogi istituì il Gran Libro del debito pubblico, nel quale confluirono i debiti degli Stati preesistenti all’unificazione. Ma non gli attivi, gli immobili, gli arredi, le quadrerie, i terreni, dei principi, e dei principi della chiesa. In dieci anni, dal 1861 al 1871, il Gran Libro registrò un abbondante raddoppio del debito dell’Italia in rapporto al suo prodotto, dal 36 all’80 per cento.
Furono i consigli comunali del Risorgimento, specie al Sud, le borghesie predatorie della manomorta, che hanno regalato il demanio a figli, fratelli, nipoti, cugini, cognati, Giustino Fortunato lo documenta, e alienato gli usi civici inalienabili, per somme simboliche o per niente, bruciando gli archivi perché non ne restasse traccia. A partire dalla riforma antifeudale di Colletta e Scura. Anzi da prima, Augusto Placanica lo prova, dall’eversione illuminista o giuseppinista dei beni ecclesiastici, con la cessione della Cassa Sacra, che aveva nazionalizzato i beni ecclesiastici per la ricostruzione in Calabria dopo il terremoto del 1783, e hanno predato i boschi, per le guerre e per la pace.
Se ne ha una’incarnazione recente negli anni 1930 nell’appropriazione del Bosco d’Italia in Calabria a uso traversine ferroviarie da parte della famiglia Feltrinelli, grandi taglialegna, dei quali consacrò la fortuna – in una coi boschi della Dalmazia.
Autobio
Calabretto è toponimo molto comune in Grecia. Il paese greco Calabretto, Kalàvryta, è di mezza montagna. Ma non un semplice crocevia come ai piedi dell’Aspromonte. È il terminale di una ferrovia di montagna, la Diakopto-Kalàvryta, costruita tra il 1885 e il 1895 da ingegneri italiani. il paese che avvitò il 21 marzo 1821 la guerra d’indipendenza, issando la bandiera greca sul monastero di Agia Lavra, santa Laura. Il paese è ora più famoso per il massacro, analogo a quello di Sant’Anna di Stazzema. Il 13 dicembre 1943, dice il sito, gli occupanti tedeschi vendicarono l’uccisione di 80 dei loro soldati da parte dei partigiani col massacro di tutti i maschi (696, solo 13 sopravvissero) e l’incendio del paese.
Petros Markaris racconta la storia diversamente, alla fine de “La lunga estate del commissario Charitos”: come se, cioè, gli ottanta tedeschi, dapprima prigionieri dei partigiani dell’Elas, il fornte comunista, fossero stati uccisi dopo l’eccidio. I partigiani avevano preso prigionieri ottanta soldati. I tedeschi cercarono un mediatore, minacciando una “rappresaglia spaventosa” se i partigiani non avessero liberato i prigionieri. I partigiani rifiutarono. Il comando tedesco allora spostò a Kalàvryta un battaglione di disciplina Ebersberger, dal nome del comandante. Rinforzato da 300 squadristi greci, degli Squadroni di sicurezza, greci con uniformi tedesche. Mentre 1.500 squadristi circondavano il paese per evitare fughe. Secondo Markaris, i tedeschi del battaglione Ebersberger radunarono gli uomini, gli squadristi greci li uccisero.
Il parroco don Bruno si fa l’esame di coscienza in pubblico: “Ho 3.500 parrocchiani. Indiscutibile, il dato è anagrafico. Di questi 3.500, per mia scienza e coscienza, una cinquantina delinquono, la maggioranza di essi non abitualmente. In più aggiungerei venticinque giovinastri, una classe d’età più che una banda o una platea criminale, di giovani che periodicamente passano per il vandalismo. Ne subiscono il fascino, per l’età, e per l’attenzione carente delle famiglie. Ma a fronte di questa esigua minoranza il popolo non ha voce. La comunità non ha la parola. Ci manca quella comunità di popolo, sostrato di ogni rivoluzione”
“La luna di Napoli è più grande di quella di qua”, andava sostenendo il coscritto in licenza o in congedo, tornato in paese per vie traverse (itinerari sbagliati, treni accelerati, treni perduti), e questa sicurezza gli ha valso il soprannome, Luna ‘e Napoli. Che è sempre spregiativo.
“Per via di Foggia” è invece modo di dire, ma legato anch’esso a qualche coscritto. Rientrato da Napoli dopo alcuni giorni “per via di Foggia”, avendo sbagliato treno. È una storia postunitaria, dato che la coscrizione fu il primo provvedimento sociale dell’unità.
Si va da Napoli a Reggio Calabria direttamente solo da fine Ottocento. Prima bisognava passare però non per “via di Foggia” ma di Metaponto. Si raddoppiava comunque il percorso. Su treni locali, quindi cambiando spesso. Era facile perdersi. Tanto più per gli analfabeti. Molti, con la “bassa” di passaggio in mano, che non sapevano leggere o non si orientavano sugli itinerari, prendevano i treni più diversi. Dopodiché i capotreni dovevano farli avanzare e mai tornare indietro.
Lo stesso “errore” fa Lampedusa nel “Gattopardo”, p. 237 della riedizione di Lanza Tomasi: nel 1883 il principe Salina decide di tornare a Palermo da Napoli, dove è andato con la nave a farsi visitare da un illustre clinico, via terra. E ha una brutta sorpresa: “La linea ferroviaria non era ancora compiuta: nel suo ultimo tratto vicino a Reggio faceva una larga svolta per Metaponto attraverso paesaggi lunari che per scherzo portavano i nomi atletici e voluttuosi di Crotone e di Sibari”.
Nel 1883 la linea ferroviaria Napoli-Reggio non era effettivamente compiuta, ne mancavano lunghi tratti. Anche la “larga svolta” teoricamente c’era, poiché triplica il percorso. Ma Metaponto dista da Reggio come Napoli. Anche l’itinerario è sbagliato, Sibari è tra Metaponto e Crotone, non dopo.
leuzzi@antiit.eu
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