Gira da oltre quarant’anni, dalla crisi petrolifera e monetaria del 1973, e non si sgonfia, il falso mito della deindustrializzazione. Alimentato surrettiziamente, dal 1968, dall’ambientalismo di Nixon e Franz-Josef Strauss, il leader bavarese. Dall’industria dell’ambientalismo, cioè.
I due forti esponenti della destra non baravano: progettavano una nuova industria accanto a quelle esistenti. Ma l’ambientalismo fu recepito in Italia, nel confuso dibattito sul Nuovo Modello di Sviluppo del confusissimo Pci-Cgil del 1975-76 come un’alternativa – alternativa era la parola: all’industria. Mentre era ed è vero che non c’è benessere materiale, più reddito cioè più largamente distribuito (più lavoro, più risparmio, più consumo) senza l’industria. Del metallurgico o del minatore come del banchiere.
I minatori e gli operai del Sulcis in piccolo numero e compostamente, i metallurgici di Taranto con rabbia, lo testimoniano. Recepiti dall’opinione con solidarietà ma con compatimento. Mentre esprimono, nella loro tragedia personale, la verità del’economia, contro la false utopie, del malthusianesimo produttivo (i “limiti allo sviluppo”, 1973) come della new economy. Si dice che Londra e New York sono ricche pur avendo chiuso le loro fabbriche inquinanti. Ma hanno aperto, sviluppato e imposto una imponentissima industria della finanza – chiunque lo vede in questa crisi.
Nell’economia dell’austerità che la Germania ha imposto all’Europa non si vendono più automobili. Ma la chiusura della Fiat, anche solo di uno stabilimento Fiat, invece dei due chiusi in Germania da Opel, e in Francia da Peugeot, terrebbe l’Italia in recessione per alcuni anni. Mentre l’elettronica sicuramente è bella, oltre che bella, è senz’altro è un’industria, una grande industria, ed è l’industria del futuro, non ci sono dubbi. Ma è energivora: si dovrà per essa, dai grandi data center al portatile privato, raddoppiare la produzione di elettricità in dieci anni.
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