Le ottanta pagine del titolo, il saggio
che Piovene scrisse cinquant’anni fa (cui faceva seguire le rubriche da lui
tenute su “Epoca”, dal 1958, e su “L’Espresso”, dal 1962, più alcuni articoli
della “Stampa” e del “Saggiatore”), si rilegge come se fosse oggi. Allora il
problema era come si poteva essere stati fascisti senza esserlo: per ipocrisia,
spiega Piovene, con se stessi. Oggi è come si può essere ugualmente ipocriti,
cosa lo impone in regime democratico. Il regime conta poco sulla natura
dell’intellettuale.
Piovene, considerato persona ambigua più
che scrittore dell’ambiguità, si rivela onesto. Anche
se indulge qui a una sorta di cistka di
tipo staliniano – era difficile non essere stati antifascisti nei giornali dopo
la guerra. Un’autocritica senza respiro. E un incolparsi anche un inutile, un
errore aggiuntivo – doppio, poiché non c’era nessuno Stalin in realtà a imporre
la “confessione”. Del giornalismo però non nasconde nulla.
Nei grandi giornali vigeva l’ipocrisia, ricorda del fascismo: “In periodo di tirannia, se non si è riusciti a resistere, l’ipocrisi diventa una specie di sale amaro che rende il servire più sapido, più disgustoso, più accettabile perché più disgustoso”. E in periodo di democrazia? Perché l’ipocrisia nella democrazia? Perché il giornale è uno strumento – Piovene non lo dice, ma questo è il senso della sue rubriche sui settimanali. Lo “zelo del consenso finto”, che sotto Mussolini era all’origine di molti pezzi eccessivamente entusiasti, come a liberarsi da una cosa infetta, Piovene trovava cinquant’anni fa nella grande azienda verso i suoi funzionari, anch’essa totalitaria. Costante il cruccio del giornalista che non riesce a leggere il giornale, per la supponenza, la superficialità, l’infamia. Già allora il giornalismo militante o di denuncia era finito in “lettere anonime circolari anche se portano una firma”. Notevole l’elogio iniziale della scrittura in progress, non sistematizzato, così in anticipo sui blog.
Nei grandi giornali vigeva l’ipocrisia, ricorda del fascismo: “In periodo di tirannia, se non si è riusciti a resistere, l’ipocrisi diventa una specie di sale amaro che rende il servire più sapido, più disgustoso, più accettabile perché più disgustoso”. E in periodo di democrazia? Perché l’ipocrisia nella democrazia? Perché il giornale è uno strumento – Piovene non lo dice, ma questo è il senso della sue rubriche sui settimanali. Lo “zelo del consenso finto”, che sotto Mussolini era all’origine di molti pezzi eccessivamente entusiasti, come a liberarsi da una cosa infetta, Piovene trovava cinquant’anni fa nella grande azienda verso i suoi funzionari, anch’essa totalitaria. Costante il cruccio del giornalista che non riesce a leggere il giornale, per la supponenza, la superficialità, l’infamia. Già allora il giornalismo militante o di denuncia era finito in “lettere anonime circolari anche se portano una firma”. Notevole l’elogio iniziale della scrittura in progress, non sistematizzato, così in anticipo sui blog.
Guido Piovene, La coda di paglia
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