mercoledì 12 settembre 2012

Il mondo com'è - 109

astolfo

Imperialismo – C’è un imperialismo basato sull’antimperialismo. Sull’anticolonialismo e sulle guerre di liberazione, come meglio sui movimenti democratici di piazza – la democrazia delle comunicazioni di massa, caratteristicamente malleabili.
In tutta la decolonizzazione, i trent’anni dopo la guerra, anche quando essa si è fatta con guerre di liberazione che implicavano un’attenzione particolare, se non una presenza, delle potenze comuniste, c’è stata una costante: gli Usa che fanno le scarpe agli alleati europei, gli ex alleati della guerra antinazista rischierati nella Nato contro l’Urss. In Indocina e nel Nord Africa contro la Francia, in Africa contro il Belgio e il Portogallo, a Suez contro la Gran Bretagna.
Per la guerra di Suez, nel 1956, la Bbc elaborò cinque anni dopo una serie radiofonica molto drammatica, sceneggiata da Peter Calvocoressi, in cui la sostituzione affiorava prepotente dalle voci, dai toni e le cadenze prima che dalle cose dette. Le voci di Dayan e Bidault s’intrecciavano a sbugiardare sonore Eden, tutto naso. Giocata sul tempo reale, le aristoteliche unità di tempo, luogo e azione, la trasmissione, che la Bbc ha in archivio, dà immediato il senso delle storia: l’America che si sostituisce all’Europa, scalzandola da sinistra, l’imperialismo basato sull’antimperialismo.

È stato un fardello, aveva ragione Kipling. E “una tigre di carta”, aveva ragione Mao. I conti del professor P.T.Bauer alla London School of Economics hanno documentato quarant’anni fa che le partite correnti delle potenze coloniali con le colonie e i territori dipendenti sono sempre negativi: spendevano di più di quanto riuscivano a recuperare. Era una partita politica a senso economico, oltre che etico, negativo.
Per non dire dell’imperialismo italiano, che, pur straccione, fu tutto spese suntuarie, palazzi, piazze, viali, marine, qualche scuola, qualche ospedale, e niente profitto. Giusto per divertirsi buttando i li-bici dall’aereo, o cacciare gli abissini nei boschi con le bombe incendiarie. L’imperialismo è un problema che è anche la soluzione.

La Gran Bretagna sa di aver guadagnato in America molto di più dopo l’indipendenza degli States, senza più obblighi di spesa. L’imperialismo è anticapitalista. Quello predatorio di Lenin, dei prestatori di denaro, dell’oppio imposto alla Cina, dei mercanti di spezie, e quello delle potenze. O quello di emigrazione, per la voglia comune di disertare casa e famiglia. Di fottersi le indigene, e di ergersi, cafoni sgorbi, a gentiluomini di campagna. Il primo imperialista è Robinson Crusoe, l’europeo che si crea un feudo in un’isola lontana.
Non è mai stato neppure potente, per quanto feroce. E sempre è stato sconfitto. In Vietnam a caro prezzo, col semplice digiuno in India. I movimenti di liberazione africani hanno vinto scalzi l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna e il Portogallo. Il privilegio dell’imperialismo, nel jingoismo, il destino manifesto, il fardello dell’uomo bianco, la grandeur, la Grande Proletaria, oggi nella democrazia, è di conquistarsi con queste sciocchezze il plauso delle masse. Mentre è stato, per la politica e l’economia, autodistruttivo, spendendo più di quanto ricava, nei conti di Bauer e successivamente – oggi nelle guerre di liberazione che combattiamo in Afghanistan, Iraq e altrove. Le spezie, le materie prime, il lavoro gratuito o a poco prezzo sono sempre stati ragioni posticce.

L’imperialismo delle potenze, superbamente idiota, ha costruito il Medio Oriente per lo spasso degli agenti inglesi. E ha sovrammesso degli Stati agli odi ancestrali, ripescando la tribù dal disarmo: “Gli europei erano convinti che gli africani appartenessero alle tribù”, spiega Iliffe con dovizia ne “L’invenzione della tradizione”, “gli africani costruirono le tribù cui appartenere”.

Islam – In Arabia Saudita, dove la prima scuola per le bambine fu aperta nel 1973 dall’illuminato re Feisal, che per questo pagherà con la vita, con insegnanti ciechi, c’è almeno una regista di cinema, Haifaa el Mansur. Un suo film, “Wadjida”, è stato presentato a Venezia. Su una ragazzina ribelle. In un mondo dove la segregazione femminile può essere una scelta.

Manomorta – Con le leggi eversive del 1848, Umberto Eco fa spiegare al suo doppio abominevole Simone Simonini nel “Cimitero di Praga”, Carlo Alberto si prese i beni dei gesuiti, e anche dei “gesuitanti”: gli oblati di san Calo e di Maria Santissima, i liguoristi. Dei preti attivi nella società. Nonché degli ordini contemplanti mendicanti e contemplativi – gli ordini fanno uno dei formidabili repertori di cui Eco si compiace, che sembrano inventai e invece sono veri: canonici lateranensi, canonici regolari di sant’Egidio, carmelitani calzati e scalzi, certosini, benedettini cassinesi, cistercensi, olivetani, minimi, minori conventuali, minori dell’osservanza, minori riformati, minori cappuccini, oblati di santa Maria, di nuovo, passionisti, domenicani, mercedari, servi di Maria, padri dell’Oratorio, e poi clarisse, crocifisse, celestine o turchine, e battistine.
Non c’era allora la protezione della biodiversità.

È la borghesia famelica della manomorta all’origine del deficit di legittimità dell’Italia unita? O dell’Italia, si può dire, giacché la Repubblica, per quanto cattolica e democristiana, non ha saputo fare la vera semplice storia dell’unità. Le leggi eversive non tralasciarono nulla, case, palazzi, opere d’arte, arredi, argenti, i banchi e le campane delle chiese, i libri, i mobili, con i terreni naturalmente.
La vendita si fece, questo è certo, senza beneficio per lo Stato. Grazie alle arti di Pietro Bastogi, gra massone e primo ministro delle Finanze dell’Italia unita. Nel 1861 Bastogi istituì il Gran Libro del debito pubblico, nel quale confluirono i debiti degli Stati preesistenti all’unificazione. Ma non gli attivi, gli immobili, gli arredi, le quadrerie, i terreni, dei principi, e dei principi della chiesa. In dieci anni, dal 1861 al 1871, il Gran Libro registrò un abbondante raddoppio del debito dell’Italia in rapporto al suo prodotto, dal 36 all’80 per cento.

Nazionalismo – Già avido di guerre, da qualche tempo si nutre di partite di calcio. È il caso della Spagna, che, in crisi profonda da tutti i punti di vista, economica e perfino nazionale, regge grazie alla indiscussa qualità delle sue squadre di calcio. La vittoria della Francia di Zidane “tricolore e multicolore” al Mondiale di calcio del 1998 smontò l’onda ricorrente del minuto razzismo francese. Analogo effetto ebbe in Italia la vittoria del 1982 al Mondiale di Spagna: per qualche settimana le città furono più ordinate, e un’ondata di proficuo ottimismo si riverberò sugli anni successivi, perfino sulle attività di governo – gli anni 1980 furono una parentesi nell’ordinato-disordine itaiano.

Televisione – Ne resta poco dopo la pubblicità. La sua unica “natura” è l’occupazione delle frequenze (i ripetitori). Per il resto è pubblicità. Si dice dei “contenuti”, della tv e dei videotelefoni, come di un’industria. Ma anche i “contenuti” (sceneggiati, format, film, e compresa l’informazione) sono pubblicità: è la pubblicità che decide tipologie e linguaggi dei programmi, la programmazione, la presentazione e, indirettamente, il gradimento del pubblico (la pubblicità “forma” i gusti del pubblico, li doma, li trasforma, li adatta).

Si fa una grande differenza tra quella generalista e quella a pagamento. Mentre è tutta uguale, la differenza è che una si paga, caro.
La differenza la fanno i comunicatori (esperti vari, sociologi della comunicazione, giornalisti) perché la tv a pagamento ha più mezzi e fa più pubblicità attiva. Compresi i compensi degli esperti. Ma i programmi non sono diversi, né i tempi di programmazione.
La pubblicità sancisce questa realtà. Il pubblico della tv a pagamento si presume più “selezionato”, cioè con più capacità di spesa, e per questo la pubblicità dovrebbe costare più cara. Ma s’indirizza a un pubblico che è necessariamente una quota piccola di quello generalista (della tv gratuita), e quindi è una pubblicità che paga (costa) poco. Per questo anche la tv a pagamento ne fa molta, proprio come le reti generaliste meno seguite.

astolfo@antiit.eu

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