Arbasino alla maggiore età scopre il Terzo Mondo. Non molti anni fa, nelle vacanza estiva del 2008. E non sembra divertirsi, l’inevitabile fastidio evocando con le trenodie di Lévi-Strauss e Lévi-Bruhl, “Tristi tropici” e “Il pensiero selvaggio”, in originale francese. Il lettore sicuramente no, non si diverte. Gli elenchi, sempre formidabili, sono insapori – Arbasino crea al meglio quando è “all’opposizione”: oggi le vite basse e le americhe latine sono una sua caricatura. E aggrapparsi a Parigi nel tropico sudaticcio non è di conforto.
Fino a metà libro, quando subentra la memoria, che a una certa età è la cosa migliore. L’immagine “latina” degli anni 1950-1960, della gioventù dell’autore. Di Evita soprattutto - di che “riflettere sulle Teorie delle Masse”, e sulla storia, littoriale e post. Delle rovine di Buenos Aires e Montevideo. Di vecchie zie spagnolesche, a Voghera. Di cugini dimenticati, tale “Tillo” Attilio Gatti, fotoreporter per il “National Geographic” tra le due guerre, e le sue scoperte dell’Africa. E dei “provocanti o imbarazzanti Ritorni di tanti Rimossi”. Una rispondenza fra tutte: quella serissima Rosa da Lima-Rita da Cascia-nazionalpopolare horror dei “telefoni bianchi” con “le ripetitive ricorrenze di fantasmi Cines nell’Immaginazione religiosa”, cattivissime, “anche in piccoli centri come Parabiago”, rinforzate dai “sottoprodotti di Generalcine, Fonofilm e Manderfilm” (una rispondenza che però si potrebbe ribaltare: non sono i fantasmi Cines, coi sottoprodotti, e uniformarsi sull’Immaginazione religiosa?). Non nuovo ma sempre inesplicato il repertorio canonico della santità, di flagellazioni, san Sebastiani, tentazioni, serpenti, pustole. Fulminante l’incursione, a p. 56, sul “quartiere letterario” alla Cecchignola.
Alberto Arbasino, Pensieri selvaggi a Buenos Aires, Adelphi, pp. 125 €10
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