È un esercizio di autocoscienza. Dell’autrice che a ventitré anni ha chiaro giudizio del suo problema. “Perché cosa sono io se non un’anima errante? Non riesco a capire la vita, neanche i nessi più semplici, eppure mi assumo le mie responsabilità”. Non sapendo “da che cosa posso riconoscere la mia identità personale”. Ci vorrebbe Dio, ma bisogna avere la fede.
Un racconto dell’ambiguità. Della morale dell’ambiguità. Gidiano: “L’Immoralista” è richiamato d’acchito. Ma in una Berlino promiscua, già inquieta ma liberamente trasgressiva - più Isherwod che Gide, della gaytudine perfino snobistica (qui di garagisti, figli del portiere e taxisti). Anche Sybille, che è una cantante di varietà, “sembra un ragazzo per via dei fianchi stretti”. Più la natura, le strade, i boschi, i prati, nella quale la scrittrice già si ritrova in questo racconto (quasi) d’esordio come più tardi, più felicemente, nei libri di viaggio – “la terra non possono portarmela via”.
“Nei libri amo solo la scrittura” è il programma di Annemarie Schwarzenbach al debutto letterario ventunenne nella “Pariser Novelle II”. Ribadito due anni dopo con questa esercitazione pratica, “Lyrische Novelle”, tradotto col nome della protagonista. Ma senza fortuna. In vita e in morte la biografia ha avuto il sopravvento sulla scrittura, per la bellezza di Annemarie androgina, oggetto cultuale nel saffismo, nella famiglia di Thomas Mann, padre, figli, figlie, in Martin du Gard, in Carson McCullers e in una folla di adepti postumi.
Daniela Idra qui ne accenna una lettura infine letteraria, seppure rimproverandole “un’eccessiva astrattezza”. Ma si può dire anche questo di “Sybille”, come di “Ogni cosa è da lei illuminata”, recentemente riscoperto, uno stile nuovo. Confacente all’ambiguità dei sentimenti, in anticipo sulla scuola dello sguardo e il minimalismo. Di godimento attuale dunque alla lettura.
Annemarie Schwarzenbach, Sybille, Casagrande, pp. 110 € 12
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