Commedia - Franco Cordelli
torna a teatro, e vede una commedia “davvero impeccabile”. Cosa può essere impeccabile
in una commedia? Le scene no. I costumi neppure. La recitazione, i tempi. Che
sono uno stato di grazia, occasionale a ogni recita, non programmabili,
organizzabili. La tragedia si costruisce, la commedia vuole fluidità
(flessibilità!).
Complotto
– Nel mentre che
rifà i “complotti” del secondo Ottocento, ebraico, gesuita, massonico, nel
“Cimitero di Praga”, come una “storia della stupidità”, Umberto Eco ne inventa
uno sull’unità dell’Italia – fino alla morte per affondamento di Ippolito
Nievo, che “aveva le carte” della Sicilia... Un secondo assioma se ne può
estrarre, che il complotto (la stupidità) è unitario – oppure che il complotto
è contagioso.
È anche una libera esercitazione, di
fantasia. Seppure non nobile.
Quello
dei complotti è
un circuito chiuso, di fantasia limitata. Le spie inventano, ma su schemi
limitati e poveri. Si può dire anzi che le spie e i falsari non inventano
niente, hanno pochi schemi espressivi a disposizione. Per questo i complotti
stancano: la storia dei complotti è ripetitiva.
La parola, della cui etimologia non
si viene a capo, si può ben farla derivare da com-plot, più plot, più trame. Maccheronicamente ma
non troppo. Il complotto è una trama
di più trame.
Dante
– È piagnucoloso.
Anche questo è vero, soprattutto nella “Vita Nova”, dove si piange per un terzo
delle pagine. E lamentoso, di Firenze, dell’Italia, della sua storia, delle
donne, degli uomini, del mondo. È crudele. È giudice parzialissimo. Vendicativo
sempre. Rileggendolo, in “Dante vivo”,
Papini non fa che trovarvi
inciampi. Ma con un curioso effetto: si propone di trattate Dante non
“alla
dantesca”, ma lui stesso è preso nel gorgo: tratta cinquanta differenti
sfaccettature del personaggio e del poeta. Non tutte negative. È multiforme –
Papini come si sarebbe voluto, uniforme?
È superbo, si sa. E la superbia è
un peccato, di cui però lui si assolve. Si fa dare da Cacciaguida la grazia
infusa (“Paradiso”, XV, 28-30), “superinfusa”. Che si discuteva allora, e poi
per qualche secolo, se fosse stata privilegio della Madonna, unico. Subito,
all’“Inferno”, IV, 100-102, si paragona a Omero, Orazio, Ovidio, Lucano,
Virgilio. Interpella e rampogna, condanna, elegge papi e imperatori, cardinali,
principi. Corti. Ma questo è quello che lo fa Dante, la “superiorità” del
poeta.
È un’arroganza che non dà infatti fastidio
– la superbia è stancante oltre che peccaminosa. Sullo sfondo dei vent’anni di
vita raminga? O dell’opera che vi concepì e scrisse.
Lettura – È un investimento. Anche quando è
un passatempo. È un accumulo di sensazioni, sentimenti, passioni, e anche di
idee. A uso proprio, per passare il tempo (riposare) e per fantasticare, e
anche di utilità pratica: energizzante, emolliente (svelenante).
Luoghi
comuni – Proverbi,
adagi (gli “Adagia” di Erasmo, il libro più letto del cinquecento, ne erano un
repertorio), metafore correnti e modi di dire. Buttando i luoghi comuni si
butterebbe via la possibilità di comunicare, argomenta Marc Fumaroli nel suo voluminosissimo
saggio-antologia “Le livre des métaphores”, e anche di scrivere. Di “scrivere”,
non per il consumo cioè.
L’accademico di Francia, spiega in
una intervista col “Magazine Littéraire” di settembre, si rifà a Paulhan, “I
fiori di Tarbes” (niente fiori nel giardino), sottotitolo “Il terrore nelle
lettere”, per argomentare in favore di un “fondo comune” nel linguaggio, che
renda possibile (significativa) la comunicazione e la scrittura, e che è
costituita dai “luoghi comuni”. Contro “il discorso polarizzato tra gli
estremi, la specializzazione e l’esoterismo da un alto, dall’altro la banalità
e la volgarità del chiacchiericcio, tra scrittura e best-seller”. Contro “la moltiplicazione delle parole astratte in
–ismo, in –zione, in –tà nella lingua attuale”.
Ma non sono questi i “luoghi
comuni” di oggi? Cioè abusati, fino all’insignificanza - non è questo che
definisce il luogo comune?
C’è un equivoco: “I luoghi comuni
della retorica sono il contrario di ciò che i romantici hanno chiamato banalità,
idee ricevute… Il paesaggio di luoghi comuni che presenta il mio libro dà idea
del funzionamento della lingua come artigianato retorico”. C’è da “perderci la
testa”? Fumaroli non demorde: “L’espressione è entrata nella lingua nel 1792”,
con la ghigliottina. Ma bisogna saperlo: il luogo comune vive per chi conosce i
luoghi – altrimenti non dice niente.
Luoghi letterari – Sono
sempre quelli del grande libro di Giampaolo Dossena (l’“Atlante della
letteratura italiana” di Luzzatto e Gabriele Peullà è storico): un libro, un
personaggio, un luogo. Reciprocamente costitutivi. Ma nella storia. Dossena ne
era entusiasta.
Ma Davos da almeno trent’anni, luogo di pratica personale, non è niente di questo: è
una Cortina minore, con altrettanta innevazione e insolazione a 360 gradi, al
centro cioè di una valle aperta, ma senza carattere, un paesone anonimo,
provinciale anche, che in Svizzera è difficile – meglio Kloster (i principi
reali inglesi vanno a Kloster).
Arbasino ritorna nell’albergo di Proust
bambino a Baalbec e ci trova grassoni e culone. Forchettoni al buffet. Con le
cinque stelle e tutto.
Romanzo – È genere borghese. Atteggiato e
ordinato: psicologia, simmetrie, eroismi, anche degenerazioni. Da Richardson a
Ballard. Praticamente senza eccezioni (Dostoevskij? Céline…). Nella storia,
nelle storie, nella casistica delle storie. Naturalmente
borghese?
Traduzione - È
interpretazione, chiarisce e agevola. Le oscurità (Dante), l’enfasi
(Shakespeare), le sfumature (Céline), le deformazioni del linguaggio (Joyce,
Gadda). Non perché il traduttore è traditore, un baro, ma perché è un lettore.
Anche il lettore dà un senso, uno suo.
letterautore@antiit.eu
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