lunedì 24 settembre 2012

Letture - 111

letterautore


Commedia - Franco Cordelli torna a teatro, e vede una commedia “davvero impeccabile”. Cosa può essere impeccabile in una commedia? Le scene no. I costumi neppure. La recitazione, i tempi. Che sono uno stato di grazia, occasionale a ogni recita, non programmabili, organizzabili. La tragedia si costruisce, la commedia vuole fluidità (flessibilità!).

Complotto – Nel mentre che rifà i “complotti” del secondo Ottocento, ebraico, gesuita, massonico, nel “Cimitero di Praga”, come una “storia della stupidità”, Umberto Eco ne inventa uno sull’unità dell’Italia – fino alla morte per affondamento di Ippolito Nievo, che “aveva le carte” della Sicilia... Un secondo assioma se ne può estrarre, che il complotto (la stupidità) è unitario – oppure che il complotto è contagioso.
È anche una libera esercitazione, di fantasia. Seppure non nobile.

Quello dei complotti è un circuito chiuso, di fantasia limitata. Le spie inventano, ma su schemi limitati e poveri. Si può dire anzi che le spie e i falsari non inventano niente, hanno pochi schemi espressivi a disposizione. Per questo i complotti stancano: la storia dei complotti è ripetitiva.

La parola, della cui etimologia non si viene a capo, si può ben farla derivare da com-plot, più plot, più trame. Maccheronicamente ma non troppo. Il complotto è una trama di più trame.

Dante – È piagnucoloso. Anche questo è vero, soprattutto nella “Vita Nova”, dove si piange per un terzo delle pagine. E lamentoso, di Firenze, dell’Italia, della sua storia, delle donne, degli uomini, del mondo. È crudele. È giudice parzialissimo. Vendicativo sempre. Rileggendolo, in “Dante vivo”,
Papini non fa che trovarvi inciampi. Ma con un curioso effetto: si propone di trattate Dante non
“alla dantesca”, ma lui stesso è preso nel gorgo: tratta cinquanta differenti sfaccettature del personaggio e del poeta. Non tutte negative. È multiforme – Papini come si sarebbe voluto, uniforme?
È superbo, si sa. E la superbia è un peccato, di cui però lui si assolve. Si fa dare da Cacciaguida la grazia infusa (“Paradiso”, XV, 28-30), “superinfusa”. Che si discuteva allora, e poi per qualche secolo, se fosse stata privilegio della Madonna, unico. Subito, all’“Inferno”, IV, 100-102, si paragona a Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, Virgilio. Interpella e rampogna, condanna, elegge papi e imperatori, cardinali, principi. Corti. Ma questo è quello che lo fa Dante, la “superiorità” del poeta.
È un’arroganza che non dà infatti fastidio – la superbia è stancante oltre che peccaminosa. Sullo sfondo dei vent’anni di vita raminga? O dell’opera che vi concepì e scrisse.

Lettura – È un investimento. Anche quando è un passatempo. È un accumulo di sensazioni, sentimenti, passioni, e anche di idee. A uso proprio, per passare il tempo (riposare) e per fantasticare, e anche di utilità pratica: energizzante, emolliente (svelenante).
Luoghi comuni – Proverbi, adagi (gli “Adagia” di Erasmo, il libro più letto del cinquecento, ne erano un repertorio), metafore correnti e modi di dire. Buttando i luoghi comuni si butterebbe via la possibilità di comunicare, argomenta Marc Fumaroli nel suo voluminosissimo saggio-antologia “Le livre des métaphores”, e anche di scrivere. Di “scrivere”, non per il consumo cioè.
L’accademico di Francia, spiega in una intervista col “Magazine Littéraire” di settembre, si rifà a Paulhan, “I fiori di Tarbes” (niente fiori nel giardino), sottotitolo “Il terrore nelle lettere”, per argomentare in favore di un “fondo comune” nel linguaggio, che renda possibile (significativa) la comunicazione e la scrittura, e che è costituita dai “luoghi comuni”. Contro “il discorso polarizzato tra gli estremi, la specializzazione e l’esoterismo da un alto, dall’altro la banalità e la volgarità del chiacchiericcio, tra scrittura e best-seller”. Contro  “la moltiplicazione delle parole astratte in –ismo, in –zione, in –tà nella lingua attuale”.
Ma non sono questi i “luoghi comuni” di oggi? Cioè abusati, fino all’insignificanza - non è questo che definisce il luogo comune?
C’è un equivoco: “I luoghi comuni della retorica sono il contrario di ciò che i romantici hanno chiamato banalità, idee ricevute… Il paesaggio di luoghi comuni che presenta il mio libro dà idea del funzionamento della lingua come artigianato retorico”. C’è da “perderci la testa”? Fumaroli non demorde: “L’espressione è entrata nella lingua nel 1792”, con la ghigliottina. Ma bisogna saperlo: il luogo comune vive per chi conosce i luoghi – altrimenti non dice niente.

Luoghi letterari – Sono sempre quelli del grande libro di Giampaolo Dossena (l’“Atlante della letteratura italiana” di Luzzatto e Gabriele Peullà è storico): un libro, un personaggio, un luogo. Reciprocamente costitutivi. Ma nella storia. Dossena ne era entusiasta.
Ma Davos da almeno trent’anni, luogo di  pratica personale, non è niente di questo: è una Cortina minore, con altrettanta innevazione e insolazione a 360 gradi, al centro cioè di una valle aperta, ma senza carattere, un paesone anonimo, provinciale anche, che in Svizzera è difficile – meglio Kloster (i principi reali inglesi vanno a Kloster).
Arbasino ritorna nell’albergo di Proust bambino a Baalbec e ci trova grassoni e culone. Forchettoni al buffet. Con le cinque stelle e tutto.

Romanzo – È genere borghese. Atteggiato e ordinato: psicologia, simmetrie, eroismi, anche degenerazioni. Da Richardson a Ballard. Praticamente senza eccezioni (Dostoevskij? Céline…). Nella storia, nelle storie, nella casistica delle storie. Naturalmente borghese?

Traduzione - È interpretazione, chiarisce e agevola. Le oscurità (Dante), l’enfasi (Shakespeare), le sfumature (Céline), le deformazioni del linguaggio (Joyce, Gadda). Non perché il traduttore è traditore, un baro, ma perché è un lettore. Anche il lettore dà un senso, uno suo.

letterautore@antiit.eu



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