dell’assurdo
– in contemporanea con Ionesco, che il genere sublimava e esauriva. Al film manca
l’Aristotele dell’epigrafe: “Chi ha composto ha soppresso (o dissimulato)”, che
annuncia i molteplici travestimenti cui Queneau si è obbligato – e che fanno la
“trama”. E manca naturalmente la parola magica, “Doukipudonktan?”, che apre il
libro, il parlato di “D’où qu’ils puent donc tant”? com’è che puzzano tanto. Ma
l’ossessione di Queneau con la metro, mondo infero, obbligato per i più e
precluso, è nel film visibile, non più un’ubbia di Zazie.
Nello
stesso anno in cui cominciava “Zazie” Queneau fa il protagonista di “Lontano da
Rueil” un appassionato di “metrologia”, e della metro la scena di un tentativo
di teatro, i due atti “En passant”. L’idea è un gioco a nascondino con le
identità (verità). Senza ricorrere all’inconscio (sotterraneo: la metro è
chiusa ostinatamente per sciopero), ma in superficie, tra fughe e
trasformazioni. Lo stesso meccanismo per cui in “Alice”, quasi un secolo prima
e di più nel recente film di Tim Burton, le cose appaiono e scompaiono.
Identità sessuali, generazionali, parentali, di ruolo. Con un multiforme Vittorio
Caprioli nel ruolo plurimo di Trouscaille-sbirro-satiro-gentiluomo. Con in più
le fughe e gli inseguimenti, che solo al cinema si possono.
Con questo
arricchimento Malle avvicina “Zazie” al “Romanzo comico” di Charron (“buffo”
nella traduzione in commercio di Sellerio). Cui la critica recente lo apparenta.
Il mondo povero dei commedianti, lì professionali qui loro malgrado, si
sostanzia nell’incomunicabilità e nell’irrilevanza. Fino alla baraonda finale al
ristorante - di cui faranno tesoro le serie di film alla Bud Spencer e Terence
Hill.
Louis
Malle, Zazie nel metro
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