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sabato 15 settembre 2012

Secondi pensieri - (115)

zeulig

Colpa – È problema, si dice, e non soluzione, irresolubile. Il problema cioè è la Colpa stessa. Jaspers, si dice, che è psicologo e non giurista, s’è sbagliato inventando la Colpa: vergogna sarebbe stata la parola giusta. La colpa collettiva non c’è. Se non a specchio dell’antisemitismo - “sono tutti cattivi”.
La colpa, ha ragione il codice, è personale. E, ha ragione Primo Levi, è graduata. Quella del ferroviere dei treni della morte non è quella del torturatore e dell’assassino, tanto più che potrebbe non sapere che i campi di lavoro sono di sterminio. Figurarsi le donne di casa, quindi la metà dei tedeschi. E tuttavia c’è chi, pur nel razzismo, aiuta i razzisti a salvarsi, e chi invece li denuncia, tra il popolo e nelle istituzioni, Jaspers ha ragione.

In sé è discutibile. La filosofa Salomé, anch’essa psicologa, trova e accetta “la prevenzione innata contro ogni sentimento di colpevolezza”. Ma fino alla rimozione? Non senso critico ma colpa oscura? Meglio se umanizzata, cioè condivisa, ributtata sull’essere. Meglio se occidentale, dall’“Apocalisse dell’anima tedesca” all’“Escatologia occidentale” – è così che la filosofia tedesca approda all’Occidente. Ma è un rovesciamento della difesa “innata” di Lou Salomé. Il passaggio è semplice: si assoggetta una civiltà come una persona, inoculando i propri sensi di colpa – è anche il meccanismo della decadenza.
Un eminente analista disse a Jaspers nell’estate del ‘33: “L’ascesa di Hitler è il maggior atto psicoterapeutico della storia”. Era ebreo, ma non importa. “Questo uso sbagliato di psicologia, psicoterapia, psicanalisi e il modo a esso collegato di pensare, sono un’epidemia del mondo occidentale”, ne dedurrà il filosofo, “a causa della quale innumerevoli uomini sembrano andare in rovina come esseri umani dal punto di vista esistenziale”. A causa della decadenza, o gusto della morte. Cos’è l’uso sbagliato? Che non si rumina più: “Ciò che viene in maniera offensiva detto «ruminare» è piuttosto la «ripetizione», attraverso la quale la nostra esistenza ha un peso nel tempo, è ciò che forma la nostra storicità. Ciò rappresenta la costituzione storica, che dall’Antico Testamento ha pervaso la nostra esistenza occidentale”, scioccamente derisa dai moderni, con il lo-ro “piatto razionalismo e una psicologia superficiale”. Ma senza coscienza critica (certo, bisogna vedere cos’è coscienza e cosa critica)? La colpa è sempre condivisa. Ma non può essere di tutti, della condizione umana, anche soltanto in versione ridotta, “occidentale”.

La colpa tedesca, Schuld, è anche il debito, e in questo senso tutti siamo senz’altro colpevoli. Indebitati. Alla banca, al droghiere, allo Stato, all’amante, a Dio, alla filosofia, alla storia, e a ogni altro avente causa. E creditori anche, dipende dalla psicologia.

IndistinzioneContraria sunt complementa, direbbe Bohr, che se ne fece da baronetto il motto. Un angelo per esempio con una troia? E il movimento, si sa, non esiste, il mutamento, Zenone lo dimostrò tre volte. È il motto del momento, e tuttavia sofistico. L’unità dei distinti crociana resta – è in realtà l’affermazione dei distinti, della non indistinzione.

Limite – È il paletto che la realtà fa reale. Quando è che i granelli di sabbia fanno un sòrite o acervo. Dove il granello si fa montagna. Quand’è che una mela, che stiamo mangiando, non è più una mela.
È il paletto d’inizio del pensiero.
È quantitativo. Si presume anche qualitativo – quand’è che il buono diventa cattivo, e viceversa, la giustizia ingiusta. Ma questo è un giudizio: su un’azione, ex post, personale. Il limite è ex ante e volumetrico: di numero (di massa), di dimensioni, di natura (minerale, vegetale, animale).

Schadenfreude - Sarà stato il primo contributo tedesco alla scienza politica, la gioia maligna, per la disgrazia altrui. Anche se Hobbes già la censiva nel “Cittadino”: “Ogni piacere dell’animo e ogni zelo trovano la radice in alcuni nel confronto col quale ci si possa magnificare”.

Storia - La storia, che Napoleone voleva “favola concordata”, è profonda, per questo lenta a scorrere, direbbe Braudel. E concreta, aggiungerebbe Marc Bloch, nonché probabile. Distruggendo i miti e le menzogne, sia pure benevole, di cui essa stessa si compiace: il senso della storia è nemico delle illusioni. La storia non dà scampo all’uomo, la cui unica certezza è la morte, e in questo modo l’eternità si realizza nel tempo. Sarà “impenetrabile, e sommerge la ragione e ogni conoscenza”, come voleva Herder, ma è in realtà l’epifania del sacro: anche la storia profana, delittuosa, è sacra - poiché tutto è sacro, quello che l’uomo pensa. La storia è retorica, è stato anche detto, opus oratorium maxime, giudice dei secoli, serva della morale, nonché della teologia. “La libertà della scrittura è la vera madre della storia”, insiste ovvio Gregorio Leti. E insomma, ecco Valéry, è cattiva maestra. Un enigma sanguinoso e beffardo per il reazionario. O è la Provvidenza. La storia vera, si sa, è segreta. Va con l’intelligenza della vita. Che dev’essere poca.
Il bello di questa storia è che se ne può fare a meno. La storia non c’è, o meglio si dissimula. La storia va e viene, le città nascono e muoiono, i popoli, le culture. Può concepirsi solo a n dimensioni, direbbe Braudel. È la scienza di Epimenide, che dormì per 57 anni. O il lungo sogno di Dio di Scoto Eriugena e il vescovo Berkeley. Che ogni tanto si prende una pausa e lascia fare. Ogni conoscenza è memoria, e dunque lo è ogni novità? Memoria volontaria, quella di Proust, “che è sopratutto una memoria dell’intelligenza e degli occhi, non ci dà del passato che facce senza verità, ma un odore, un sapore ritrovato sì”. Il tempo è rovine, si dice in un racconto di Franco Lucentini. Ma c’è un tempo in cui il tempo non decade? Non un tempo storico – passato, presente, futuro. Ma questo tempo non tempo non può esserci stato, altrimenti non ci sarebbe il tempo. La modernità è assolutamente antica, direbbe Oscar Wilde. Di antico, cioè di stabile - reale - c’è solo quanto è moderno. Anche la tradizione che la modernità inventa, la quale altrimenti non esisterebbe.

Viaggiare - Non si sa perché si viaggia. L’incertezza del “che fai?” è tutta qui: ancora nel Settecento i lenti viaggiatori facevano testamento, prima di mettersi in cammino. Sono rustici i viaggiatori, nel mondo che l’intimità culla, di sguardi, suoni, contatti sommessi, chiusi in se stessi, taciturni. Schopenhauer ne trova il fascino nel piacere di vedere: affascinante è vedere, terribile essere - più superficiale del solito: vedere non è essere?
Non si tratta di andare da qualche parte ma soltanto di uscire, Lévinas lo insegna bene in “De l’évasion”: ci si esprime solo uscendo. In modo non assimilabile al mutamento o alla creazione, no, si esce senza sapere dove si va, tanto “nessuno è in casa propria”. Per il bisogno che, “come il malessere che lo causa, esprime la pienezza dell’essere”. Un bisogno che non è una mancanza, si viaggia per essere. Filosoficamente lo spiega Cusano, il cardinale, col rigore del tedesco dalla nomade natura: “Il moto è la realizzazione della quiete. Muoversi è passare da quiete in quiete”. Muoversi è passare da uno stato a un altro, e dunque “non è altro che quiete ordinata, quiete ordinata in serie”. C’è chi non sta in pace se non si agita.

zeulig@antiit.com

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