“Berlusconi mafioso? La voce gira”, era la campagna elettorale del 1994, “vediamo, le indagini sono in corso”. Lo diceva il senatore democristiano Nicola Mancino, ministro dell’Interno. La mafia-Stato controllava allora anche le Procure?
Il Sud fu “debole e
corrotto” con Cavour. Il biografo Romeo riduce a poche righe, incidentali, le
obiezioni di chi considera l’unità all’origine della “questione meridionale”, e
le dice infondate. Dopo però questa direttiva, che onestamente non rimuove, di
Cavour ai luogotenenti a Napoli e Palermo, Farini e Montezemolo: “Lo scopo è chiaro; non è
suscettibile di discussione. Imporre l’unità alla parte più corrotta e più
debole dell’Italia. Sui mezzi non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale e
se questa non basta la fisica”. Cioè la fisica, giacché il conte marchiava
quella parte d’Italia, a lui del tutto sconosciuta, debole e corrotta.
In uno dei suoi “Scritti dispersi”, perlopiù
elzeviri, Corrado Alvaro ha una banda di briganti che, al tempo di Federico II,
non essendo possibile sgominarla, fu incorporata tra gli sgherri del sovrano –
Alvaro dice nella polizia, ma questa è una novità del Settecento, illuministica.
Già nella Grecia antica era al Nord che Atlante
reggeva il mondo, sulle sue spalle. Al paese degli iperborei – checché voglia
dire, ma comunque iper.
La fame, l’insicurezza
In “Conversazione in
Sicilia”, tornando da Milano, Vittorini “vede” nell’isola la fame. Un tema
narrativo trascurato, forse disonorevole in Italia. Siamo nel 1940 o 1941, ma
non è per la guerra. È proprio non avere, non avere mai avuto, di che mangiare,
non decentemente. Dieci anni prima Alvaro riferiva di profughi di Africo, il
paese calabrese distrutto dall’alluvione, che sull’Appennino tosco-emiliano si
nutrivano di fieno. Negli anni 1960 a Gerace, ora borgo ridente di antiche chiese
e palazzi restaurati, le capre brucavano dentro le mura, le loro campanelle più
forti del silenzio, e i bambini a scuola avevano soprattutto fame. Una fame
imperiosa: l’insegnante, erano alle medie, portava un pane grande, da due chili,
lo tagliava a fette, e le fette subito sparivano, ingoiate prime che
masticate.,
La fame non c’è più, e
anche prima della guerra s’immagina sporadica – la “media” coscienza europea la
escludeva da almeno un secolo e mezzo, dai rotten
boroughs delle periferie britanniche e dal primo primitivo welfare. Ma c’è l’insicurezza a essa
collegata: vitale, costitutiva, per nessun’altra ragione. Anche nel crimine,
l’insicurezza pesa più dalla malvagità.
All’università in Calabria come in colonia
Strage di candidati al
test d’accesso all’ex Magistero per maestri elementari, ora Scienze della
Formazione, all’università di Cosenza. Come in tutti i test d’accesso, ogni
anno, in qualsiasi facoltà, anche umanistica, in qualsiasi università. Nelle
facoltà umanistiche molte università hanno dovuto istituire, dopo i test
d’accesso, corsi preliminari di alfabetizzazione primaria, perché in molte
scuole superiori non s’impara più a scrivere.
“Il problema”, dice al
“Quotidiano di Calabria” il professor Nuccio Ordine, presidente della
commissione all’ex Magistero di Cosenza, è che si studia sempre meno, sul
presupposto che tutti hanno diritto a un titolo: “Nel Paese si sta abbassando
sempre più il livello dell’insegnamento, a partire dalle università per passare
alle scuole superiori, alle medie e così via”.
Lo scoglio principale
su cui hanno sbattuto molti concorrenti a Cosenza è stata la differenza tra
aggettivo e pronome. Una carenza grave, ma non eccezionale. E invece il
giornale del professor Ordine, il “Corriere della sera”, ne fa l’apertura del
suo supplemento “Sette”, a firma di Gian Antonio Stella. Che commenta: “E
questo nonostante dalle scuole superiori calabresi escano ogni anno moltitudini
di diplomati dai voti non alti ma altissimi”. Che non c’entra, magari quelli
coi voti altissimi non ambiscono al Magistero, ma non si scappa: falla come
vuoi, sempre cucuzza è.
En passant, Stella sostiene che
all’università di Cosenza ci sono “migliaia di indagati sulle lauree
taroccate”. Cioè tutti i laureati.
Stella non meraviglia:
è un veneto lombardo che ogni settimana deve scrivere contro la Calabria. Anche
se non si capisce perché la firma più rappresentativa del “Corriere della sera”
abbia questa urgenza. Ma i professori scandalizzati dell’università di Cosenza?
Questa università sembra il Makerere College dell’Uganda, l’università che
negli anni 1960 formò una generazione di acuti antimperialisti – seppure nella
direzione sbagliata. Poi venne Idi Amin. L’Uganda, il paese delle quattro
primavere, collassò al livello più basso della disastratissima Africa. Il
Makerere College è rimasto nella memoria come ultima idea del provvido
colonialismo britannico. La Calabria non è l’Uganda, naturalmente. Ma perché
dovrebbe diventare una colonia di Milano, nel Duemila? Il percorso coloniale è
insidioso. E poi non c’è di meglio? Nella storia delle colonie si distingue
molto, tra chi fu vittima dei cappuccini e chi si ebbe i gesuiti – chi si ebbe
l’Italia e chi gli inglesi.
La Calabria non è in Africa,
però… L’ultima pagina lo stesso “Corriere della sera-Sette” la riempie con due
lettere strappalacrime, di Pietro Mancini e di Emiliano Morrone. Non tutta la
Calabria, scrivono, è “killer e faccendieri”. E questo è pura Africa al tempo
del terzomondismo, quando diceva “scusateci, miglioreremo”. Oppure è peggio di
Stella: la Calabria come la messa di Enrico IV di Francia, protestante nel
cuore - come una purga, se uno ha la disgrazia di esserci nato.
Il latifondo del “Cuore”
Nel 1906, pochi mesi
prima di morire, Edmondo De Amicis fece il suo viaggio in Sicilia, e ne scrisse
in un volumetto di “Ricordi”. Socialista, viaggiatore, scrittore raro di
viaggi, De Amicis mostra che si poteva viaggiare al Sud senza pregiudizi. Senza
mancare di vedere quello che c’era, ma per come era. Per esempio, viaggiando da
Palermo a Siracusa e Catania, il latifondo. Detto infine per come è stato,
nell’insieme e in dettaglio, e con gli oneri che lascia nella società
siciliana, ogni parola significativa e veritiera:
“Il latifondo, che vuol dire campagna senza case
coloniche e senz’alberi, e i contadini costretti a vivere nei grandi centri,
dove sono sottoposti a gravami da cui dovrebbero essere esenti, e donne che
debbono fare ogni giorno un lungo cammino per recarsi al lavoro; il latifondo che
favorisce il furto campestre, l’abigeato, il malandrinaggio, il brigantaggio, e
crea una catena di parassiti sfruttatori fra il grande proprietario assente e
il lavoratore abbandonato a sé stesso; il latifondo, funesta espressione
economica, che, come disse un illustre statista siciliano, filtrandosi,
spiritualizzandosi per lungo abito di servaggio nelle menti, nel costume, nella
vita intima, separò le classi, le fortune, gli animi, e mettendo in opposizione
gli interessi dei signori con quelli del popolo, e mantenendo questo
nell’ignoranza, riduce la maggioranza lavoratrice in condizione di minoranza
legale di fronte ai suoi oppressori, prevalenti nelle Provincie, nei municipi,
in tutte le rappresentanze pubbliche, e quindi padroni d’ogni cosa, tiranneggianti
a loro beneplacito e perpetuatori della miseria”.
leuzzi@antiit.eu
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