Sa di vecchia čistka, la liquidazione sommaria di un compagno nella sezione o nella cellula, il processo al giudice Ingroia al Consiglio nazionale di Magistratura Democratica, il sindacato ex Pci dei giudici. Non un processo, per la verità, la čistka era “una discussione franca e onesta”. Proprio come al Consiglio Nazionale di Magistratura Democratica, ha spiegato il presidente Marini.
Dopo i soliti voti di ortodossia, le accuse in forma d’illazione. “Davanti a un capo d’imputazione che appaia un magistrato come Francesco di Maggio e un boss mafioso come Leoluca Bagarella, io resto turbato”, dice fra sé e sé a voce alta il giudice Salvi. E non intende dire che, se Bagarella fosse stato un mafioso semplice, o di Maggio un generale dei carabinieri, lui non si sarebbe turbato. No, intende dire che Ingroia non ha interpretato bene la linea. “Credo che un processo che nasce ruminando le carte di altri processi e su un’ipotesi di accusa scivolosa….”, obietta al giudice Ingroia la pasionaria del sindacato, Elisabetta Cesqui. La quale non intende dire che Ingroia ha fatto qualcosa d’illegale, altrimenti dovrebbe denunciarlo – denunciarlo scopertamente, a termini di legge. No, qui non si tratta di leggi, si tratta di dare una mano a Napolitano che ha denunziato Ingroia. Le čistka a questo servivano, a tenere tutti in linea.
Lo spettatore non sa però se dolersene, o compiangere i “sopravvissuti” – tali i giapponesi dell’ultima guerra perduti nella giungla. A fronte del postmoderno Ingroia. Che un’inchiesta stracca, “ruminata” per anni a carico di Berlusconi e Dell’Utri, è riuscito a imporre alle prime pagine col solo nominare Napolitano.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento