giovedì 25 ottobre 2012

Il mondo com'è (115)

astolfo

Europa - Ha avuto per molti anni un futuro davanti a sé, un progetto, un’aspettativa. Ora ha solo un passato: cosa abbiamo fatto, dove abbiamo sbagliato, perché l’abbiamo fatto. Piena di sussiego e niente più. Di suo sa solo giocare al calcio. Ma perché può ancora pagarsi i migliori sudamericani.

Internet – È la disinformazione. Ne è il magazzino e il teatro. Nell’era del “falso autentico” – si fa una mostra a Roma di Vermeer, e contemporaneamente si celebra van Meegeren, il suo “falsario autentico”.
È come si vuole, il veicolo dell’espressione libera e planetaria. Ma, senza limiti né regole, nella forma negativa della disinformacija. Anche quando non lo è: è il contesto che privilegia l’informazione alterata, artefatta, di parte, a fini reconditi. Le ultime guerre, in Libia e in Siria, sono state combattute sul piano internazionale con una disinformazione smaccata. Esagerazioni del modello ormai classico di Barry Levinson una quindicina d’anni fa, “Sesso e potere”, che al produttore disoccupato Dustin Hoffmann commissionava una guerra finta, con profughi, feriti e altre icone – non c’era youtube, ma l’importante era far vedere. La rete è perlustrata in largo e in lungo, e ampiamente utilizzata anche, da occhiuti servizi e scelti spioni, qualsiasi blogger lo fiuta, lo sente (lo “sa”).
Anche il privato, di facebook come già delle chat e dei blog, è artefatto.

È come la vedeva Alan Turing, il suo ideatore, lo scienziato filosofo delle “stringhe”: anarchica. Anch’essa, come l’anarchia politica, soggetta a ogni “infiltrazione” o “provocazione”.  L’algoritmo non ne elimina l’imprevedibilità, assicurava Turing, ma non ne assicura la stabilità (impenetrabilità).

Islam – Si può dire in crisi di crescenza, per la modernizzazione forzata. E accelerata, negli ultimi cinquant’anni, roba di due generazioni. Dapprima col nasserismo, la forma araba del bonapartismo, con un assetto gerarchico e statalistico dominante nella politica e nell’economia. Poi col petrolio. E quindi soprattutto con la penisola arabica, che grazie al caro-petrolio ha assunto una posizione condizionante in tutto il mondo arabo, e anche islamico, fino all’Equatore e all’Indonesia. Ed è in questi anni in posizione dominante, anche se non di controllo, nel business finanziario e architettonico, con i grattacieli più alti del mondo, marmi dispendiosi, giardini artificiali, e spreco di acqua, in cascatelle e ruscelli.
Gli Emirati del Golfo, Abu Dhabi, Dubai, Sharjah, e i principati del Qatar e del Bahrein, erano all’epoca dello shock petrolifero, nel 1973, dei villaggi di pescatori. Appena usciti dal protettorato britannico – erano gli stati della Tregua, la tregua intervenuta nel 1953 fra la Gran Bretagna e i pirati che li abitavano. Nell’Oman, cui avevano dato l’indipendenza con gli ex stati della Tregua, i britannici avevano dovuto far fare nel 1970 un colpo di Stato a Qabus, il figlio del sultano Said, per poter introdurre l’elettricità e altre novità, cui il sultano si opponeva. Nel 1973 l’Arabia Saudita sperimentava cautamente la scuola per le ragazze: due sezioni, con insegnanti ciechi. E si poneva il problema della televisione, se autorizzarne una, se proiettarvi altro che letture sacre, e se le donne dovessero apparirvi e come – le donne allora, che non potevano guidare ed erano malviste se giravano sole,  si potevano mostrare in pubblico coperte interamente di nero, senza nemmeno la finestrella del burqa.  Per essere troppo modernista, il re saudita Feisal fu assassinato poi da un nipote.

Gli odi sono sempre stati incontrollabili tra le diverse confessioni. Con guerre civili costanti e latenti dove le confessioni sono mescolate, in Libano, in Iraq. E in Libano, Iraq, Egitto, Algeria e Turchia verso i cristiani, seppure sparute minoranze, non in comando, non elitiste.
A Tripoli del Libano, ammasso non elegante né moderno, la seconda città del Libano, sunniti e alauiti sono sempre stati in guerra perpetua. Anche dopo la guerra civile linbanese e ben prima di quella siriana in corso. Con attentati e vendete personali. Perfino la richiesta di carte all’anagrafe e le denunce alla polizia sono discriminate in base alla confessione, si è infedeli per poco.

La verità dell’islam è insuperabile, per il noto quesito: quale nuova verità? Se è la stessa cosa , allora è inutile. Se è superiore a quella che abbiamo, allora è falsa. Che sembra un falso sillogismo, e lo è.

Italia – In quanto vittima di se stessa, lo è in particolare del pregiudizio intellettuale, cioè della sua classe colta. Espressione di una borghesia che si formò con la manomorta, cioè col furto legalizzato. Nel 1824 Leopardi condannava l’Italia, nel “Discorso”, per l’assenza di una classe dirigente, la “società stretta”, e di un comune patrimonio morale, il “buon tono”. L’identità nazionale si affermerà in negativo: furbizia, compromesso, approssimazione, disinvoltura. Fino al paradigma di Carlo Tullio Altan e l’editore Feltrinelli una trentina d’anni fa, chiusa la gloriosa stagione del terrorismo: “La nostra Italia” dell'antropologo culturale era fatta di “Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo”.
Anche la storia si è presto atteggiata in negativo. Basti per tutti il diverso approccio a Machiavelli negli studi, in Italia e fuori d’Italia. Faziosità, compromesso, clientele, qualunquismo, immobilismo sono diventati le costanti storiche. In un certo senso predisposte, la storia è la letteratura. Già Dante, sette secoli fa, muoveva nell’alveo di un’Italia marcia e dissolta, molto prima di cominciare a esistere.
Un certo passato c’è, di cui non si può non tenere il conto. Ma soprattutto ha pesato e pesa, notava Galli della Loggia nel 1996 in “La morte della patria”, l’“egemonia degli intellettuali letterati sul discorso storico-politico italiano”. Bersaglio di questa depressione-delusione è, da Dante in poi, la Chiesa. Ma il suo moralismo è esso stesso tipicamente chiesastico, notava lo storico: “La sistematica commistione di politica e morale, di politica e «carattere» è proprio ciò che essa (la Chiesa) fa abitualmente, così come vuole la sua natura, terrena e spirituale insieme”. Se laica, la cultura si organizza e pensa come antichiesa - per sistemi salvifici a questo punto del tutto inafferrabili.
Non ci sono peraltro, in questa commistione di politica e morale, studi italiani di come la società italiana pensa, si organizza, funziona, se non quello “L’italiano” di Bollati (1983), ancora vivo, la serie sulla identità italiana promossa presso il Mulino da Galli della Loggia, e le rilevazioni periodiche del Censis, anzi i contributi di De Rita al Censis. La deprecazione-invettiva-denuncia è il genere critico e storico di questa invadenza pervasiva. A partite da Gioberti, che fu tutt’e tre le cose insieme, uomo di Chiesa, politico e letterato. Nel 1844 l’abate Gioberti sanciva che il popolo italiano non esiste, “un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa, e non so pur se si trovi nel nostro vocabolario”. Lo sanciva nel “Primato morale e civile degli Italiani”, da cui escludeva il popolo.
L’ideologia del declino è lo stereotipo di una cultura antistorica, che al reale si avvicina al più per vacui sociologismi. Agitata dal giacobino italico, l’intellettuale pretesco che si compiace negli estremi verbali, che i sociologi nobilitano in anarchismo - scolpito a tutto tondo nel 1969 dal petty bourgeois della “New Left Review”, il borghese piccolo piccolo di Sordi-Cerami. Ne scriveva già Marx 130 anni fa (che Sereni cita, “Capitalismo nelle campagne”, 1975, p.119) a proposito della partecipazione italiana all’Internazionale, attraverso le fazioni bakuniniane dell’Alleanza: “L’Alleanza in Italia non è un raggruppamento operaio ma una truppa di declassés, il rifiuto della borghesia. Tutte le pretese sezioni dell’Internazionale in Italia sono dirette da avvocati senza clienti, da medici senza ammalati e senza conoscenze mediche, da studenti assidui al biliardo, da viaggiatori e da impiegati di commercio e specialmente da giornalisti”. Giulio Bollati ricorda opportunamente Croce: “Qual è il carattere di un popolo? La sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia”.


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