Un libro onesto. Di un Vittorini
siciliano per ogni aspetto, anche nel rifiuto. La Sicilia riduce a “una mia
stazione della vita”, dalla quale fuggire, e l’aveva fatto più volte prima di
quella definitiva a quindici anni. Ma non si trattiene dal familiare
intransitivo attivo, “uscì di tasca una grande mano”, “scendendo le sue valige”.
Che è una costruzione mentale: la lingua, intende, tutto siamo noi. Il plot è del resto manifesto, un nostos triste: Vittorini va a trovare la madre sola,
abbandonata dal padre, la Sicilia.
Sciascia, che
inizialmente stravedeva per questo Vittorini –
quando Vittorini faceva l’editoria a Milano e Torino – nel 1981 lo rilegge e
cambia idea: “Non resiste purtroppo, è una Sicilia tradotta”. È invece l’unico libro onesto di un siciliano,
pur riluttante, sulla Sicilia. E nella prima metà, le prime tre parti, un
capolavoro, non una virgola è di troppo. Senza smancerie, e senza cattiveria.
Non folklorico – ah, la diversità (la diversità qui non è sottolineata). Il
Gran Lombardo, che meglio sarebbe stato Gran Normanno quale in Sicilia ancora s’incontra
ovunque, “alto, biondo e con gli occhi azzurri”, mentre i Lombardi vi sono
piccoli e scuri, è il formidabile nonno materno, sicilianissimo, e un omaggio dello
scrittore alla “sua” Milano.
Elio Vittorini, Conversazione
in Sicilia
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