sabato 27 ottobre 2012

Il sogno di una Sicilia lombarda

Vittorini sprofonda, come Alice o come in sogno, in un mondo a parte che chiama Sicilia, reale e onirico insieme, febbricitante. Dove incontra la fame, la povertà materiale. Dentro una capacità mentale ed espressiva perfino esagerata. Che gli si impone nelle vesti di un Gran Lombardo, e di un Arrotino-Calzolaio-Cenciaiolo. Dialogando cioè con se stesso. In cerca, in guerra, col fascismo rimpicciolito dagli eventi, di “cose da fare per la nostra coscienza in un senso nuovo”.
Un libro onesto. Di un Vittorini siciliano per ogni aspetto, anche nel rifiuto. La Sicilia riduce a “una mia stazione della vita”, dalla quale fuggire, e l’aveva fatto più volte prima di quella definitiva a quindici anni. Ma non si trattiene dal familiare intransitivo attivo, “uscì di tasca una grande mano”, “scendendo le sue valige”. Che è una costruzione mentale: la lingua, intende, tutto siamo noi. Il plot è del resto manifesto, un nostos triste: Vittorini va a trovare la madre sola, abbandonata dal padre, la Sicilia.
Sciascia, che inizialmente stravedeva per questo Vittorini – quando Vittorini faceva l’editoria a Milano e Torino – nel 1981 lo rilegge e cambia idea: “Non resiste purtroppo, è una Sicilia tradotta”. È invece l’unico libro onesto di un siciliano, pur riluttante, sulla Sicilia. E nella prima metà, le prime tre parti, un capolavoro, non una virgola è di troppo. Senza smancerie, e senza cattiveria. Non folklorico – ah, la diversità (la diversità qui non è sottolineata). Il Gran Lombardo, che meglio sarebbe stato Gran Normanno quale in Sicilia ancora s’incontra ovunque, “alto, biondo e con gli occhi azzurri”, mentre i Lombardi vi sono piccoli e scuri, è il formidabile nonno materno, sicilianissimo, e un omaggio dello scrittore alla “sua” Milano.
Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia

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