venerdì 26 ottobre 2012

L’anarca Jünger e la stupidità tedesca

Per un anno e mezzo, quasi due, l’occupazione tedesca della Francia era stata accettata: “Lo stato d’animo dei francesi era stato sorprendentemente positivo”, scrive il curatore, Sven Olaf Berggōtz. Fino al 21 agosto 1941. Fu dopo l’attacco all’Urss che i tedeschi in Francia subirono i primi attacchi partigiani. Sporadici, e raramente efficaci. Con l’effetto inizialmente di dare credito al governo collaborazionista di Vichy. È solo a fine 1941 che Jünger nota “un profondo mutamento” dei rapporti tra francesi e tedeschi. Senza turbare l’occupante, che anzi ipotizzerà di “dichiarare ostaggi tutti gli uomini di età compresa tra i sedici e i sessant’anni”. Non subito però.
Anche la rappresaglia tedesca fu inizialmente confusa. Preceduta per ogni reazione da scambi tra autorità occupanti, tra gli occupanti e Vichy, e tra gli occupanti e le varie autorità di Berlino. Ma alla fine, come in ogni atto nazista, prevalse il peggio. Rispetto alle leggi, dei trattati e dell’onore, e rispetto agli interessi stessi dell’occupante.
I numeri di questo rapporto, che copre i primi sei mesi della reazione, sono contenuti. Anche molto contenuti in rapporto a quanto l’Italia subirà due anni dopo, per numeri e efferatezze. Ma furono subito un caso celebre in Francia, a differenza delle inutili stragi, vendicative, subite dagli italiani – molte delle quali repertoriate solo localmente, quasi sempre a fini politici e senza compassione. Diffusero, se non lo crearono, un sentimento antitedesco, e diedero nerbo alla Resistenza. Recentemente Max Gallo ne ha fatto il tema di una serie romanzata di successo, “Les Patriotes”. Nel 2007, alla vigilia del suo primo incontro col cancelliere tedesco, Angela Merkel, Sarkozy decretò che il giorno della prima rappresaglia di massa, a Nantes il 22 ottobre, fosse celebrato come il giorno della Resistenza, e che la lettera di addio di Guy Môquet, un ragazzo comunista giustiziato nella rappresaglia, fosse letta ogni anno nel scuole. Le esecuzioni venivano scandite da sfilze di manifesti, che presto indignarono anche i più rassegnati: una prima serie con le minacce, una seconda con gli ultimatum, una terza con la lista dei giustiziati. Stimolando la generale curiosità intorno a fatti ignoti ai più – isolati, periferici, notturni – e presto anche una sensibilità, antitedesca.
La “questione degli ostaggi” è un caso insigne d’incapacità più che di crudeltà - come sarà invece per le rappresaglie in Italia. Presto non ci furono più carcerati ebrei e comunisti a sufficienza da uccidere in rappresaglia. Degli ostaggi uccisi a Nantes, cinquanta, poi ridotti a 48 per un inghippo burocratico, per un ufficiale tedesco, due erano in prigione come sospetti “agenti tedeschi”, tre “patrioti” (di Vichy), e uno veterano di guerra con una gamba di legno. Le prime rappresaglie furono decise a fronte di attacchi non organizzati e poco efficaci. Due su sette erano andati a vuoto. Due avevano provocato ferite leggere. I primi sabotaggi che innescarono rappresaglie erano stati maldestri essenza effetto.
Jünger è dettaglista, per evidenti ragioni di sicurezza, scrive il rapporto come un verbalizzante. Ma non è insensibile. L’“anarca” aveva creduto alla guerra – al coraggio, all’onore, all’eroismo – e si era ricreduto nelle trincee del 1914-’18. Dopo il ’39-’40 avrebbe voluto solo riderne, in “Giardini e strade”, in “Irradiazioni”, il diario scritto ex post dell’occupazione a Parigi, e in questo rapporto: non ci vedeva che stupidità. Nel rapporto, redatto per l’autorità militare, durante i fatti e in piena guerra, include incongruamente le ultime lettere dei condannati di una rappresaglia, quella di Nantes: un muto ma esplicito atto d’insubordinazione.
Ernst Jünger, Sulla questione degli ostaggi. Parigi, 1941-1942, Guanda, pp. 189 € 14

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