Anche la rappresaglia tedesca fu
inizialmente confusa. Preceduta per ogni reazione da scambi tra autorità
occupanti, tra gli occupanti e Vichy, e tra gli occupanti e le varie autorità
di Berlino. Ma alla fine, come in ogni atto nazista, prevalse il peggio.
Rispetto alle leggi, dei trattati e dell’onore, e rispetto agli interessi
stessi dell’occupante.
I numeri di questo rapporto, che
copre i primi sei mesi della reazione, sono contenuti. Anche molto contenuti in
rapporto a quanto l’Italia subirà due anni dopo, per numeri e efferatezze. Ma
furono subito un caso celebre in Francia, a differenza delle inutili stragi,
vendicative, subite dagli italiani – molte delle quali repertoriate solo
localmente, quasi sempre a fini politici e senza compassione. Diffusero, se non
lo crearono, un sentimento antitedesco, e diedero nerbo alla Resistenza.
Recentemente Max Gallo ne ha fatto il tema di una serie romanzata di successo,
“Les Patriotes”. Nel 2007, alla vigilia del suo primo incontro col cancelliere
tedesco, Angela Merkel, Sarkozy decretò che il giorno della prima rappresaglia
di massa, a Nantes il 22 ottobre, fosse celebrato come il giorno della
Resistenza, e che la lettera di addio di Guy Môquet, un ragazzo comunista
giustiziato nella rappresaglia, fosse letta ogni anno nel scuole. Le esecuzioni
venivano scandite da sfilze di manifesti, che presto indignarono anche i più
rassegnati: una prima serie con le minacce, una seconda con gli ultimatum, una
terza con la lista dei giustiziati. Stimolando la generale curiosità intorno a
fatti ignoti ai più – isolati, periferici, notturni – e presto anche una
sensibilità, antitedesca.
La “questione degli ostaggi” è un
caso insigne d’incapacità più che di crudeltà - come sarà invece per le
rappresaglie in Italia. Presto non ci furono più carcerati ebrei e comunisti a
sufficienza da uccidere in rappresaglia. Degli ostaggi uccisi a Nantes, cinquanta,
poi ridotti a 48 per un inghippo burocratico, per un ufficiale tedesco, due
erano in prigione come sospetti “agenti tedeschi”, tre “patrioti” (di Vichy), e
uno veterano di guerra con una gamba di legno. Le prime rappresaglie furono decise
a fronte di attacchi non organizzati e poco efficaci. Due su sette erano andati
a vuoto. Due avevano provocato ferite leggere. I primi sabotaggi che
innescarono rappresaglie erano stati maldestri essenza effetto.
Jünger è dettaglista, per evidenti
ragioni di sicurezza, scrive il rapporto come un verbalizzante. Ma non è insensibile.
L’“anarca” aveva creduto alla guerra – al coraggio, all’onore, all’eroismo – e si
era ricreduto nelle trincee del 1914-’18. Dopo il ’39-’40 avrebbe voluto solo
riderne, in “Giardini e strade”, in “Irradiazioni”, il diario scritto ex post
dell’occupazione a Parigi, e in questo rapporto: non ci vedeva che stupidità.
Nel rapporto, redatto per l’autorità militare, durante i fatti e in piena
guerra, include incongruamente le ultime lettere dei condannati di una
rappresaglia, quella di Nantes: un muto ma esplicito atto d’insubordinazione.
Ernst Jünger, Sulla questione
degli ostaggi. Parigi, 1941-1942, Guanda, pp. 189 € 14
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