Amico di penna – Reso famoso da “Charlie Brown” e oggi soppiantato da internet (facebook, blog, chat), vi ha trasposto le proprie caratteristiche. Di un rapporto per lo più “inventato”: desideri, suggestioni, proiezioni, che il reale spesso fanno fantastico, e viceversa. Generalizzando a tutte le età e condizioni storiche e sociali quello che era un rapporto pedagogico. Caratterizzato: adolescenziale, borghese, di buone maniere, per vincere il ”rispetto umano”, o la timidezza, e imparare a esprimersi. Come fare teatro, giocare al calcio o altro sport di squadra, cantare in coro.
Dante - Fu un mezzo Casanova. Questo lo dice Boccaccio, che conobbe alcuni suoi contemporanei: “Tra cotanta virtù, tra cotanta scienzia,… truovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne’ giovani ani, ma ancora ne’ maturi”.
È anche semplice, molto maestro di scuola.
E mago. Questo lo attestano un documento notarile del 1320, e i Visconti signori di Milano, Matteo e il figlio Galeazzo. I non ancora duchi, ghibellini, volendo attentare alla vita di papa Giovanni XXII col veleno, lo vantano come consulente a un candidato killer.
Evita sempre la morte. Non di proposito, come modo di vita: viaggia tra i morti come se fossero vivi. Traspone la storia – la attualizza. Nietzsche, che non lo leggeva, per questo lo dice, nel “Crepuscolo degli idoli”, “una iena che fa poesia tra le tombe”. È sgradevole ma vero.
Nell’“Ecce Homo” Nietzsche s’innalza al confronto: “Dante, paragonato a Zarathustra, è solo un credente, non uno che crea prima la verità, uno spirito che domina il mondo, un destino”. Nietzsche, dice Gide di scorcio nel “Dostoevskij”, era geloso: “Nietzsche è stato geloso del Cristo, geloso fino alla follia”. Più di Dante – o Dante non era geloso (questa nel repertorio di Papini non c’è)
Follett – D’Orrico magnifica Ken Folett come un folletto della scrittura. Geniale, sorprendente. Un socialista, l’ultimo rimasto. Uno dei cinquanta, si aggiunga, che si opposero alla visita del papa a Londra. E uno storico. Avendone riletto “Sulle ali delle aquile”, cinquecento fitte pagine commissionate da Ross Perot, si dubita che i Follett siano due. Il peana fu sfornato in tempo per la vendita della società di Ross Perot alla General Motors nel 1984, con un’enorme plusvalenza, e l’avvio della divertentissima vecchiaia del milionario, con ben due campagna presidenziali vissute da candidato.
Un genio, però, certamente. La sua socialistissima moglie è quella che ha propiziato con le spese stravaganti lo scandalo delle note spese ai Comuni – inaugurando il filone dei romanissimi “Batman” , e la sconfitta dei laburisti.
Anche
la “candidatura” di Ross Perot si può dire geniale, perché no: alle
presidenziali nel 1992 e nel 1996 si fece i voti dei “democratici per Reagan”, e
fece così vincere i democratici di Bill Clinton, dopo una lunga serie di presidenze
repubblicane.
Italia - Si può andare indietro nel tempo, fino a tutto il Settecento, quando italiano non è soltanto il linguaggio della commedia e la lingua della musica, nonché il language des dames, ma è anche il disegno architettonico e urbanistico, la critica dell'economia, e perfino la speculazione filosofica. Non solo per Vico ma anche, per esempio, per Pietro Verri – dopo Giordano Bruno e calabresi Campanella e Telesio. Piero Giordanetti ha collazionato alcuni testi dell'“Antropolgia pragmatica”, nella quale Kant sintetizzò trent'anni di corsi universitari, in maniera da evincerne un debito esplicito, per filoni importanti di ricerca, su piacere e dolore per esempio, e su filosofia e teodicea, verso la filosofia italiana. Scrivono molto in italiano la regina Margherita, Louise Labé, Montaigne, Diderot nei “Gioielli indiscreti”, fino all'antipatizzante Herder. Goethe padre, Caspar, scriveva in italiano. Mozart scriveva indifferentemente in italiano e in tedesco. Voltaire, che aveva eletto l'italiano a langage des dames per corrispondere con madame Denis, sua nipote, e altre amanti, scrive in veneziano a Goldoni, e a Cesarotti con lusinga: “In italiano si dice tutto ciò che si vuole, in francese solo quel che si può”.
Il Settecento era tempo di eteroglossie, a giudizio di Gianfranco Folena, “L'italiano in Europa”. Goldoni e Casanova scrivono in francese le memorie, un genere francofono, benché derivato dai “Commentari” di Cesare - altro esito avranno, fuori dal Settecento eteroglosso, i tentativi di D'Annunzio e Malaparte. Ma italiano era indubitalmente il linguaggio della cultura. Da Pietroburgo a Vienna, a Londra e a Madrid. Fino a Ottocento inoltrato, alla “nostra Italia” di Elisabeth Barrett Browning.
Luoghi comuni – Facebook se ne può dire il trionfo, il luogo della comunicazione per eccellenza.
Ne stabiliva l’attualità già nel 1975, un secolo fa, un accademico studioso di Flaubert, l’americano Shoshama Felman, dell’università di Yale (“Modernité du lieu commun”, in “Littérature”, n. 25). A margine di “Novembre”. Facendosi forte di Baudelaire: “Esiste qualcosa di più attraente, di più fertile e di natura più positivamente eccitante del luogo comune?”, senza ironia (“Salons”, 1859). E di Léon Bloy, anche lui autore di una “Esegesi del luogo comune”: “Troppo facile dire «sembra un luogo comune». Ciò che è in realtà, chi può dirlo?”. Chi può dirlo, si chiede Felman.
Luogo comune è stereotipo, automatismo, ripetizione, cliché, la “lingua degli imbecilli” per Bloy, mentre la modernità è novità. Più paradossale, continua a dirsi Felman, attribuire questa modernità a Flaubert, che del luogo comune fu inflessibile cacciatore, fino a comporne un beffardo “Dizionario delle frasi fatte”. Un repertorio che ne ridicolizzasse l’uso. Ma c’è poi la questione dei “rapporti tra la scrittura e il silenzio”, nota Felman. Flaubert, come poi Bloy, andava alla caccia dei luoghi comuni affinché, con la scrittura “non si osasse più parlare”. Sarà il rovello di Beckett, è il problema della contemporaneità: l’abolizione dell’io. La ricerca, singolarmente “comune”, del proprio anonimato.
Silenzio – Può essere la parola più pregnante – la forma più complessa e articolata di comunicazione. Barthes, in “Dove lei non è”, il lungo lutto in morte della madre, ricorda un haikù di Bashô, “Restammo seduti per un lungo momento nel più estremo silenzio”, e si consola: “Trovo d’un tratto una specie di pace, dolce, felice, come se il mio lutto si calmasse, si sublimasse, si riconciliasse, si approfondisse senza annullarsi – come se “io mi ritrovassi””. Subito prima ha detto, della madre morta: “Poche parole tra di noi, io restavo silenzioso (frase di La Bruyère citata da Proust) ma mi ricordo del più minuto suo gusto, dei suoi giudizi”.
Una maniera muta, identificativa, di significare (estrinsecare) gli affetti, duratura.
E poi, ancora Barthes della madre: “Condividere i valori del quotidiano silenzioso (gestire la cucina, la pulizia, gli abiti, l’estetica e come il passato degli oggetti), era la mia maniera (silenziosa) di conversare con lei”.
Comunicare non “dicendo” le cose, tesoro, ti amo, etc., ma identificandosi. Trasponendosi nell’altro, per un riconoscimento”naturale”, spontaneo, immediato, nelle cose, nei gesti, nei gesti rattenuti. Questa comunicazione “naturale”, non ostensiva, non posata, senza preoccuparsi di sembrare, buoni, pii, santi, bravi, Barthes chiama “Santità” – il modo d’essere naturale, non inarticolato, vissuto.
letterautore@antiit.eu
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