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Glossa – Avviene di rileggere un libro, per esempio un romanzo, per esempio “La soluzione sette per cento” di N.Meyer su Sherlock Holmes in cura da Freud, e di trovare insignificanti le vecchie annotazioni. Come se l prima lettura fosse stata sbagliata. O sbagliata anche la lettura come la voleva Voltaire, “con la matita in mano”. È una perdita di tempo. O un vizio, a nessun effetto, non aiuta la memorizzazione – la lettura ha già lasciato le sue tracce, o non le ha lasciate.
È come per il genere diario, pratica d’attualità e di culto, e quasi un genere, il genere narrativo prevalente. Ma le stesse glosse d’autore, su cui indulge la filologia, sono irrilevanti. Se non per certificare gli umori del settore. A eccezione forse dei palinsesti, ma per effetto della rarità.
Imperialismo- Si può dire un fatto di naso. Gli inglesi, ora che sono come tutti, parlano come tutti, breve e anche simpatico, arguto. S’erano inventati quella lingua impossibile, di naso, per tenere tutti a distanza. Ora parlano col naso gli americani, che una volta parlavano simpatico. Usano quel ronron che è una posa, come se fossero nati stanchi, loro che corrono tutto il giorno, non una lingua. Lo stesso i latini, che dovevano parlare alla Gassman, da attore tragico. Un po’ come i fascisti, che l’italiano volevano scattante. O gli spagnoli del Secolo d’oro, di cui ride Manzoni.
Luoghi comuni – Costituivano una scienza, la topica. Di uso fino a ieri per i “paglietta” napoletani, gli avvocati all’arringa, e ancora oggi per i predicatori in chiesa. Una scienza dei luoghi comuni, una sorta di magazzino in cui riporre le figure retoriche di cui l’oratore ha bisogno per il suo discorso – per farsi capire e per farsi bello, per infiocchettare il suo dire. Oggi ritornano costanti nella polemica, il genere privilegiato: nato col giornalismo, esteso alla letteratura e anche agli studi umanistici, storici, sociologici, perfino filosofici. Come spia dell’inautentico – non veritiero, non vero – e al fondo stucchevole.
Questa scienza Aristotele definiva nell’omonima “Topica” come quella delle “idee generali, quelle che si possono utilizzare in tutti i discorsi, in tutti gli scritti”. Luoghi comuni come linguaggi comuni, all’accusatore e al difensore nel processo o nell’arena politica, a chi loda e a chi spregia, a chi vanta il passato e a chi promette il futuro. Una sorta di terreno comune all’argomentazione. O “base della comunicazione”. Ma l’evoluzione li ha ridotti a formule vuote, il più spesso. Anche a una riflessione approfondita, figurarsi a quella di prima impressione – o terreno di comprensione – che erano intesi a favorire.
I proverbi, desueti dopo Sciascia, sono tra i maggiori colpevoli del discredito, insieme con i wellerismi. Anche per essere ripetitivi ovunque: si vogliono – si volevano - saggezza popolare, quindi locale, mentre sono cosmopoliti, uguali ovunque, con le stesse parole e le cadenze oltre che col concetto. Per la comune derivazione, come genere e in gran parte, dalla sentenziosità latina. Hanno tuttavia – o riacquistano a fronte di una letteratura cosmopolita a miglior diritto, nei nomi, nelle ambientazioni, e poliglotta-tradotta – un forte impatto. Per un recupero del lessico, se non della saggezza.
Non in forma di cliché, che anzi accuratamente evitano, sono le scritture delle scuole di scrittura. Nell’architettura, nell’espressività. Che per questo resta fredda: scolastica, quindi di maniera.
Saper narrare è un’arte. Anche un mestiere, cioè: si giova di tecniche, supporti, logistiche. Che però nella buona narrazione si vedono, per chi voglia vederli, dopo. Nelle scritture delle scuole di scrittura invece si vedono mentre si legge, con impatto fastidioso. Tanto più per chi legge anche il francese e l’inglese, da cui molte forme e moduli sono mutuati.
Le scuole vanno perché gli editori le propongono. L’editoria più avvertita si basa sui vivai. Ma non sapendo costruirli o comunque valutarli, li prende già fatti dalle scuole di scrittura. Che garantiscono anche la pubblicità gratuita, in premi e recensioni. E questo è tutto. Il luogo comune diventa così la modernità.
Pastiche – La lettura di due classici del genere, su Sherlock Holmes, “La soluzione sette per cento”, di Nicholas Mayer, “SH contro Dracula”, di Loren D. Estleman, ne segna i limiti. Funziona il secondo, perché Estleman non mima Conan Doyle, ma s’immedesima in lui. Le prese di distanza del genere sono le stesse di Conan Doyle con le sue creature, Sherlock Holmes e Watson. Meyer, autore eclettico, e vivisettore della scrittura (è anche sceneggiatore, registra, dialoghista), ne mette invece in evidenza, come è proprio del pastiche, i procedimenti, gli stilemi riducendo a frasi fatte, e questo stanca. Più che per curiosità, il marchio di fabbrica shelockholmesiano, si va avanti per vedere “come va a finire”. Il pastiche regge alla rilettura come esercizio stilistico, critico ma benevolo, alla Proust – autore più di altri pasticciabile, per stilemi costanti nel suo romanzone.
Attorno allo Sherlock Holmes del “canone” si è sviluppato una sorta di “canone secondo”, dei falsi d’autore. Compilati, sullo schema del lascito ritrovato del dottor Watson, con gli stilemi originari, di cui esiste accurata filologia.
Il limite del pastiche, il genere più avventuroso per uno scrittore, calarsi in un altro autore, a effetto esornativo, è la distanza, sempre necessaria, dell’ironia. Anche il pastiche garbato, alla Proust, che vi si esercitava volentieri, stanca, perché non può rinunciare all’ironia. E l’ironia, nella narrazione, dissecca.
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