Neorealismo,
più camera fissa nouvelle vague, sui
fatti della vita. Il cinema iraniano ha un modulo ormai canonico, e tuttavia fresco
– Farhadi ha avuto tutti i premi a cui era candidato, fino all’Oscar 2012. Il
meglio, si può dire, del cinema europeo. Ma connotato da un’estrema libertà
tematica. Senza pregiudizi cioè politici o sociali. Seppure sotto un regime
soffocante, anche nella vita privata e nelle esperienze minime. Questo film è un
ritratto, una serie di ritratti, di grandi libertà, psicologiche, semantiche. Specie
di donne, adulte e bambine. La storia è semplice: forme di stress urbano in
parallelo, della coppia con un padre Alzheimer da gestire, della badante incinta
che perde il bambino, del marito della badante disoccupato e quindi incontrollato.
L’effetto è di coinvolgimento in una civiltà di cui ci siamo privati.
Si può
dire quella persiana la più antica civiltà dell’Occidente, quella che ha più
continuità – altre si sono perdute. Soprafatta ora dagli ayatollah, ma più
matura. Cosciente della sua propria libertà. Di spirito, e quindi di parola. Anche
nella devozione religiosa, nulla è formale – ipocrita. La solidità della
tradizione, delle libertà acquisite nella storia. In una città volutamente
modernizzante, come in un qualsiasi set di Hollywood.
Asghar
Farhadi, Una separazione
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