Proiettato
a livello nazionale, il voto siciliano significa un obbligato ricorso a un
governo di grande coalizione, cioè di nuovo al “commissario” Monti. Questo non
è possibile in Sicilia, anche con le immaginabili “provvidenze” del solito Lombardo coi suoi ascari, figlio incluso, per cui si dovrà tornare a votare a breve. Ma niente lascia
presumere un voto più stabilizzante. Quello siciliano non è un voto militante,
“alla greca” come si dice, ma di protesta rassegnata: non c’è un “nemico” esterno, non c’è una “novità”
interna. E una
sberla al federalismo, dalla regione che per prima lo ha voluto e sperimentato,
di fronte al suo fallimento in loco, ma più di fronte agli abusi in
Lombardia e nel Lazio nella stagione del suo trionfo, dei partiti della Seconda Repubblica, la Lega per prima, poi il Pdl nelle sue
varie articolazioni, infine Di Pietro. Mentre
si tace del Pd per carità di patria, finito in Sicilia ad auspicare un governo
di notabili, che non è certamente di sinistra – e nemmeno di destra, è la
peggiore tradizione italiana, il governo scalfariano dei belli-e-buoni.
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