Giovanilismo - Uno che abbia settant’anni oggi è stato impegnato, direttamente o indirettamente, nel movimento di liberazione giovanile che si chiama Sessantotto. Oggi si ritrova quella liberazione rovesciata a suo carico – e di tutta la società. Sotto le forme della modernizzazione, costante, radicale, e della qualità, che naturalmente si vuole cara. Che sono le maschere assunte dal consumismo per aggirare proprio quel movimento: allora il giovanilismo s’imponeva per alleggerire il fardello dei consumi obbligati, oggi è la punta di lancia del consumismo. Con innovazioni capricciose anche e inutili, ma impositive e generalizzate, a una platea sempre più vasta.
Un sano rifiuto
sarebbe quello, di nuovo, del consumismo, fatto ai settata invece che ai
vent’anni. Ma sarebbe destinato a soccombere, dato che il mercato lo fanno i
giovani. Per capacità di spesa e forza dirompente se non ampiezza delle classi
d’età. Anche se sono disoccupati, precari, o bamboccioni in famiglia. Il
rivolgimento generazionale di mezzo secolo fa viene ora messo in carico ai settantenni.
Che lo avevano praticato per aprire ai giovani varchi non onerosi sul futuro,
alleggerendoli dalla schiavitù dei consumi. Ora i giovani liberati impongono ai
liberatori settantenni i consumi, al 99 per cento come sempre inutili.
Manomorta – A trent’anni
dall’unità Pasquale Villari constatava (“Dove andiamo?”, in “Nuova Antologia”,
1 novembre 1893): “Tutto fu opera della borghesia, che divenne quindi padrona
di ogni cosa”. Tenendone fuori il popolo, che allora era la massa contadina. E:
“Il Governo prende allora assai facilmente l’aspetto di una consorteria, di una
camorra, che sfrutta il paese a benefizio di suoi propri associati”.
Oltre
che a spese dei beni della chiesa, si esercitò a spese degli usi civici. Dei
diritti comuni immemori cioè di pascolo, taglio, coltivo, rifornimento idrico
dei contadini sui terreni ex feudali, in gran parte demaniali.
Onna – Il paese più piccolo dell’aquilano nel terremoto del 2009, trecento abitanti, è quello che ha avuto più morti, quaranta. La Germania ha voluto impegnarsi specialmente nella ricostruzione in memoria del massacro del 1944, a opera della Wehrmacht.
A Onna le esecuzioni furono diciassette, quattordici uomini e tre donne. Tra esse la madre e la sorella di un ragazzo che aveva litigato con un tedesco per impedirgli di requisire un cavallo, e poi dai monti aveva tirato sull’occupante, in quanto membro di una non precisata formazione partigiana.
Si fecero allora funerali separati, e poi ogni anno celebrazioni distinte, le famiglie dei caduti escludendo sempre la famiglia del giovane improvvisatosi partigiano.
Resistenza - C’è un tempo della storia, un ritmo. Che la logica non scalfisce, meno che mai quella povera del terrore o totalitaria, che la storia vorrebbe dominare. E c’è una storia che i fatti non scalfiscono, murata nella logica del mito. Del Vento del Nord, per esempio, che fu tiepido ma non si può dire. Di Milano che non si liberò neppure a piazzale Loreto, né Torino, o Bologna. Della Resistenza che non fu di massa, se non in certo modo. La linea Gotica durò due inverni e fu sfondata dagli Alleati, e fu per tutti una tragedia, ma i lanci intensificati d’armi e vettovaglie crearono nel Frignano e in Lunigiana posizioni forti dopo, nella ricostruzione, anche personali. Dell’improvvisazione, causa di migliaia di morti. A Civitella della Chiana, in provincia di Arezzo, ci sono state cause tra le vedove, le orfane, le sorelle dei morti da una parte e dall’altra il comandante partigiano Edoardo Succhielli. Che le ha vinte, ma non ha domato l’odio: le donne hanno presenziato ai processi vestite di nero. La colpa, sostenne al processo Succhielli, fu della popolazione, che non aveva denunciato il quarto soldato tedesco all’osteria, consentendogli di fare la spia. I civitellini accusarono i partigiani di viltà, per non averli protetti il giorno della strage: gli uomini di Succhielli, sostennero, volevano uccidere i tedeschi e non disarmarli, e si disinteressarono della rappresaglia per salvarsi personalmente. Anche a Crespino sul Lamone, sebbene non molti siano rimasti a ricordare i fatti, l’opinione volle colpevoli i partigiani. A Castelnuovo dei Sabbioni, altro paese dell’aretino, l’opportunità politica soffocò poi la prima reazione violenta contro i partigiani. Ma perché tanti morti qui da noi, si diceva, e nessuno nel senese, che è oltre la strada? Perché lì non c’erano partigiani occasionali. A Castelnuovo e Meleto si trovarono capri espiatori nei locali repubblichini, due ometti insignificanti e incolpevoli furono linciati a guerra finita.
Stragi - Tra la liberazione di Firenze, che Manlio Magini e Giustizia e Libertà proclameranno l’11 agosto ‘44, e la liberazione della Toscana ci furono centinaia di morti in pochi giorni, contadini, bambini, madri, uomini anche nel pieno vigore, benché rintanati in cascina. Kesselring lo volle: “Proteggerò ogni comandante”, promise con ordinanza pubblica il 17 giugno, “che ecceda la nostra abituale moderazione nella scelta e la severità dei metodi adottati contro i partigiani”. La responsabilità va quindi al prode maresciallo della valorosa Wehrmacht. Ma anche all’improvvisazione omicida.
L’improvvisata Resistenza diede esca agli eroi della Wehrmacht per improvvisate esecuzioni al mitra: quattordici a Pievecchia di Pontassieve l’8 giugno, più di duecento il 4 luglio a Castelnuovo dei Sabbioni, Meleto, Massa di Sabbioni, San Martino in Pianfranzese, tra Firenze e Arezzo. L'11 luglio altre dodici si fecero a Matole, sempre nell’aretino, quarantaquattro il 17 a Crespino sul Lamone, minuscola frazione di Marradi nel Mugello che non contava tanti residenti, dodici a Pratale, alle porte di Firenze alla vigilia della liberazione. Seguiti da Sant’Anna di Stazzema il 12 agosto, e il 23 dal Padule di Fucecchio con altre 180 esecuzioni, di anziani, donne e bambini, sfollati in quel posto selvaggio dai paesi vicini per sfuggire ai bombardamenti. A Civitella della Chiana, in provincia di Arezzo, c’erano state il 29 giugno 203 esecuzioni, a colpo singolo alla nuca. Alcuni giovani avevano tentato di disarmare due tedeschi che bevevano vino al dopolavoro. Ne era seguita una sparatoria, nella quale erano morti tre tedeschi. La Resistenza in Toscana era ribellistica, disorganizzata, senza collegamenti, senza armi. Con l’eccezione di Massa e Carrara, che erano parte della Linea Gotica.
Taglione - Non c’era l’obbligo della decimazione o del
taglione nell’ordinamento militare tedesco, c’era anzi discrezionalità: la
Wehrmacht lasciava ai comandanti, fino ai capitani, autonomia in fatti di
giustizia, lo stesso le SS. Ma nell’uso c’era dieci
per uno, o uno su dieci, era la vendetta prussiana. C’è la vendetta corsa e c’è
quella prussiana: uno ogni dieci svevi volle giustiziato nel 1849 il Principe
Mitraglia Guglielmo di Prussia, quando i seimila difensori di Rastatt si
arresero, facendoli poi gettare in fosse comuni per l’igiene. Pure la pratica
dell’Annientamento, l’Olocausto, si può dire gestita con canoni prussiani.
Ma la stessa Prussia ha sancito per prima il diritto alla Resistenza e
alla lotta partigiana. Il 13 aprile 1813, contro Napoleone. Schmitt ne fa il
fulcro della “Teoria del partigiano”: “Quelle dieci
pagine della raccolta prussiana delle leggi del 1813 sono da annoverare tra le
più inusitate di tutte le gazzette ufficiali del mondo: asce, forconi, falci e
lupare vengono espressamente raccomandati nel paragrafo 43”. Questo diritto
Hitler ribadì nel ’44, contro l’Armata Rossa.
Ogni
reggimento e ogni compagnia, perfino il plotone, quindi ogni tenente, decideva
da sé. Non c’era l’ordine cieco nella Wehrmacht, è una favola. Non c’è esercito
che sia stato più decentrato. Ma la cosa finì per stimolare l’emulazione: si
schieravano in venti, un plotone, per fucilare tre o quattro civili inermi
ostaggi di rappresaglie. A Cornia,
frazione di Civitella, furono fucilati donne e bambini.
astolfo@antiit.eu
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