Cooperazione – È l’ultimo
forma di colonialismo. Più delle missioni, che invece hanno mutato natura. E
come tale è organizzata e viene percepita. E attinge sempre ai poteri degli
Stati da cui promana: per accrediti, promozione, finanziamenti, rappresentanza,
statuto giuridico.
È
pedagogica. Di saperi, organizzazioni, modi di essere e di fare, di cui pretende
la trasposizione in paesi e mondi remoti e diversi. Adattandoli, ma al fondo
con la certezza del meglio da imporre. È un imbuto. E un tappo.
È
il proprio degli aiuti. Come la cooperazione si definiva quando veniva
soprattutto in forma di contributi di denaro. Di tenere i beneficiari nella
loro condizione subalterna. Alleviata certo,
con tutta la buona volontà possibile, ma non liberata. Gli aiuti in
alternativa alla liberazione. Quale veniva proposta in forma di sbocchi aperti al
commercio e alla produzione dei poveri, di accordi di emigrazione, di forme di
diritti civili, soprattutto a protezione dal lavoro servile e minorile.
Destra-sinistra- Dal Baltico e la Polonia Stalin deportò gli ebrei, borghesi certo,
in Siberia. Riaprì Buchenwald
e Sachsenhausen per i “socialfascisti”, molti già deportati da Hitler. Con
l’indulgenza di Thomas Mann.
Il
conto dei morti in guerra in Italia dopo l’8 settembre si raccoglie in tre
volte 65 mila. Ma con sorprendente distribuzione. Sessantacinquemila morirono
per le bombe alleate. Altrettanti in deportazione in Germania, ebrei e lavoratori
forzati. Cinquantamila furono uccisi da italiani – comprese le stragi postbelliche,
1945-46, in Toscana e Liguria, nella
Bassa, a Milano - e quindicimila dai tedeschi, stragi incluse.
Karl
Wolff, il generale che ardeva di arrendersi, comandante nell’ultimo anno delle
truppe speciali tedesche in Italia, disponeva di diecimila soldati, 55 mila
riservisti, e SS in quantità ma così suddi-vise: diecimila tedeschi, ventimila
russi, diecimila sloveni, diecimila serbi, cinquemila cechi e una legione
indiana. Più centomila camicie nere.
Islam – Ha ancora la forza del Vecchio testamento: l’attesa ferma, la
certezza, perché il mondo è sacro, è Dio. Che lo tiene unito anche nel
proselitismo e nelle sette.
Non è irrazionale. L’ipotesi che il mondo è sacro non è irrazionale.
Non c’è dubbio che l’islam talebano sia blasfemo. Da ogni punto di
vista, etico, liturgico, e perfino teologico. Ma quello dei mutawai’in non lo è, degli sbirri (e
sbirre) della moralità che in Arabia Saudita controllano col bastone ogni donna
che osi uscire di casa. Quello dei pasdaran-hezbollah-guardiani
della rivoluzione in Iran non lo è. Non lo è Al Qaeda, dei jihadisti, del
terrorismo in genere, delle bombe indiscriminate e dei kamikaze, e più contro i
mussulmani non buoni.
L’islam è molto arabo. E gli arabi sono le ultime tribù orientali che
hanno tentato la conquista dell’Europa, senza però riuscirci – la conquista di
Costantinopoli è venuta troppo tardi, ed è opera dei turchi, altre tribù
nomadi, di cui gli stessi arabi erano diventati vassalli. La guerra con
l’Europa si è fatta dapprima in Europa, poi per un paio di secoli in Siria e
Palestina, quindi in tutto il Mediterraneo, fino a Lepanto (1571), preceduta
dalla sconfitta terrestre a Vienna (1529). L’ultima offensiva della Turchia,
che con Costantinopoli si era sottomessa l’Europa balcanica, finì con le
sconfitte a opera di Eugenio di Savoia, da Tibisco (1697) a Belgrado (1717), e
fu succeduta dall’occupazione europea di buona parte dei paesi islamici nella lunga
storia del colonialismo. C’è un che d’inappagato nel rapporto tra l’islam e
l’Europa, non tanto nella religione quanto tra gli arabi.
.
Si vuole tollerante anche, soprattutto, a parere degli ebrei. Che,
essendo massimi esperti di tolleranza e intolleranza, sono insindacabili. Ma
sono anche i maestri della storia non storia, di quello che è che è quello che
non è. Che è divertente. Ma poi tutti abbiamo bisogno di punti di riferimento,
di bussole e punti cardinali.
Italia – È sommersa dagli stereotipi “colti”. Della
rivoluzione borghese che è protestante. Non toscana, per esempio, o lombarda -
la borghesia dev’essere lontana per essere virtuosa. Dell’italiano moralmente
corrotto perché cattolico. Dell'Italiano gesuitico, o anche “machiavellico”,
del fine che giustifica i mezzi. Problema che venne sollevato non da
Machiavelli ma nel Settecento, in Germania, da Hermann Busenbaum, per dire
delle azioni che si possono fare o anche non fare, e in sé non sono né buone né
cattive (lo spiega profusamente un libro che dovrebbe essere famoso, “Fini e
mezzi” di A.Huxley, l’apologia più radicale del pacifismo). Mentre il gesuita è
fra tutti gli ecclesiastici la figura meno italiana.
Galli della Loggia,in “L’Italia
contemporanea 1945-1975”, a cura di V.Castronovo, 1976, p.427-429: “Il nuovo e «moderno» universo antropologico dei ceti medi non ha alle sue spalle,
riposto cioè nella società civile, alcun patrimonio di cultura, di tradizioni
di libertà e di individualità che possa dirsi geneticamente capitalistico”. È possibile.
Ma lo stesso Galli della Loggia mostra di ricredersi subito dopo.
Il patrimonio c’è, non può non esserci. Può
essere buono o cattivo, solido e d’avvenire opure finito, o insufficiente. Ma
non più vasta, a un censimento unitario, risulterebbe questo patrimonio nei
feudi della democrazia, la Svizzera, gli Usa, la Gran Bretagna. Quella che alla
borghesia manca in Italia è il riconoscimento
della sua superiorità etica. Per una sua insufficienza, è possibile. Ma a fronte
di un populismo forte delle cosiddette subculture post-risorgimentali, la
liberale, la cattolica, la socialista, la fascista, la comunista.
Qui è anche il problema della borghesia come
classe dirigente, che angustiava già Leopardi e Cattaneo. È l’effetto del
ritardo accumulato nell’Ottocento da un’Italia che si modernizzava in clima culturale
(socialista, cattolico, fascista) anticapitalista e anche anti-industriale e
anti-moderno. Da questo punto si vista l’Italia si può dire solo salvata
casualmente in questo dopoguerra. Al rimorchio degli eventi (il problema della
politica estera) per i vincoli atlantici e europei a cui si è subordinata con i
negoziati per la pace, con la scelta di De Gasperi nel 1947. Ma il populismo di
fondo persiste.
“Artistico, impulsivo, appassionato”, il
trittico nel quale si racchiudeva trent’anni fa la personalità italica secondo
gli studenti di psicologia sociale di Princeton fu posto da Giulio Bollati in
apertura al suo prezioso “L’Italiano”.
“Manca il carattere”, osservava Bollati. Il
cui saggio è nato come parte de “I caratteri originali”, il primo volume della
Storia d’Italia Einaudi.
Lega – La Lega si avvia ai vent’anni
di governo. È il più antico dei partiti in Parlamento. È il partito che più a
lungo è stato al governo, con la destra e con la sinistra. È il fatto politico
che più monopolizzato l’opinione pubblica in questi vent’anni. Per essere milanese,
naturalmente, ma non solo. E non lascia niente – si dice lascia nel comune sentire
che abbia fatto la sua stagione, la stessa Milano sembra rifiutarla.
La Lega
al governo non ha migliorato nulla e peggiorato molto. Ha voluto l’Interno e la
Rai, i due capisaldi del potere. Con esiti orridi. Una legge sull’immigrazione punitiva
per le famiglie e per i datori di lavoro onesti. A favore del lavoro nero. Ha
voluto i Forestali della Calabria, per spregio. E una rete e un tg della Rai a Milano
per “puro” sottogoverno – mentre la milanese Mediaset lavora felice a Roma a
costi dimezzati. Fino a imporre Veronica Pivetti invece di Stefania Sandrelli nella
serie del “Maresciallo Rocca” – una milanese tra Viterbo e Civitavecchia.
Il
voto plebiscitario che ha imposto per i Comuni, le Province e le Regioni, ha
utilizzato per provinciali – ma costosi – culti della personalità. Di amministratori
senza mai un’idea ma abili a catturare i titoli, con ogni bizzarria, e perfino
con la rivoltella. Il federalismo fiscale, un buon principio di cui s’è
appropriata, lo ha ridotto a idrovora a beneficio di questi “eletti dal popolo”.
Scrivendo
della Lega si è tentati di parlarne al passato, come di un episodio: c’è stato
l’Uomo Qualunque, c’è stato il partito della Bistecca, c’è stata l’onorevole
Ilona Staller, e c’è stata la Lega. Senza idee forti, anch’essa, il federalismo
non è propriamente della Lega, anzi è
molto democristiano, e liberale. E un folklore da raccapriccio. È anche un
“vecchio” partito, il partito del Capo: l’ultimo congresso l’ha tenuto agli
inizi, vent’anni fa, e ha cacciato Bossi per una congiura dei capi. Ma non senza
traccia, seppure non piacevole: la Lega ha stabilito il linguaggio e il canone,
nell’opinione e perfino nella letteratura. All’insegna del popolare che è
trasandatezza e scurrilità.
astolfo@antiit.eu
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