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lunedì 26 novembre 2012

Il mondo com'è (119)

astolfo

Cooperazione – È l’ultimo forma di colonialismo. Più delle missioni, che invece hanno mutato natura. E come tale è organizzata e viene percepita. E attinge sempre ai poteri degli Stati da cui promana: per accrediti, promozione, finanziamenti, rappresentanza, statuto giuridico.

È pedagogica. Di saperi, organizzazioni, modi di essere e di fare, di cui pretende la trasposizione in paesi e mondi remoti e diversi. Adattandoli, ma al fondo con la certezza del meglio da imporre. È un imbuto. E un tappo.
È il proprio degli aiuti. Come la cooperazione si definiva quando veniva soprattutto in forma di contributi di denaro. Di tenere i beneficiari nella loro condizione subalterna. Alleviata certo,  con tutta la buona volontà possibile, ma non liberata. Gli aiuti in alternativa alla liberazione. Quale veniva proposta in forma di sbocchi aperti al commercio e alla produzione dei poveri, di accordi di emigrazione, di forme di diritti civili, soprattutto a protezione dal lavoro servile e minorile.

Destra-sinistra- Dal Baltico e la Polonia Stalin deportò gli ebrei, borghesi certo, in Siberia. Riaprì Buchenwald e Sachsenhausen per i “socialfascisti”, molti già deportati da Hitler. Con l’indulgenza di Thomas Mann.

Il conto dei morti in guerra in Italia dopo l’8 settembre si raccoglie in tre volte 65 mila. Ma con sorprendente distribuzione. Sessantacinquemila morirono per le bombe alleate. Altrettanti in deportazione in Germania, ebrei e lavoratori forzati. Cinquantamila furono uccisi da italiani – comprese le stragi postbelliche, 1945-46, in  Toscana e Liguria, nella Bassa, a Milano - e quindicimila dai tedeschi, stragi incluse.
Karl Wolff, il generale che ardeva di arrendersi, comandante nell’ultimo anno delle truppe speciali tedesche in Italia, disponeva di diecimila soldati, 55 mila riservisti, e SS in quantità ma così suddi-vise: diecimila tedeschi, ventimila russi, diecimila sloveni, diecimila serbi, cinquemila cechi e una legione indiana. Più centomila camicie nere.

Islam – Ha ancora la forza del Vecchio testamento: l’attesa ferma, la certezza, perché il mondo è sacro, è Dio. Che lo tiene unito anche nel proselitismo e nelle sette.
Non è irrazionale. L’ipotesi che il mondo è sacro non è irrazionale.

Non c’è dubbio che l’islam talebano sia blasfemo. Da ogni punto di vista, etico, liturgico, e perfino teologico. Ma quello dei mutawai’in non lo è, degli sbirri (e sbirre) della moralità che in Arabia Saudita controllano col bastone ogni donna che osi uscire di casa. Quello dei pasdaran-hezbollah-guardiani della rivoluzione in Iran non lo è. Non lo è Al Qaeda, dei jihadisti, del terrorismo in genere, delle bombe indiscriminate e dei kamikaze, e più contro i mussulmani non buoni.

L’islam è molto arabo. E gli arabi sono le ultime tribù orientali che hanno tentato la conquista dell’Europa, senza però riuscirci – la conquista di Costantinopoli è venuta troppo tardi, ed è opera dei turchi, altre tribù nomadi, di cui gli stessi arabi erano diventati vassalli. La guerra con l’Europa si è fatta dapprima in Europa, poi per un paio di secoli in Siria e Palestina, quindi in tutto il Mediterraneo, fino a Lepanto (1571), preceduta dalla sconfitta terrestre a Vienna (1529). L’ultima offensiva della Turchia, che con Costantinopoli si era sottomessa l’Europa balcanica, finì con le sconfitte a opera di Eugenio di Savoia, da Tibisco (1697) a Belgrado (1717), e fu succeduta dall’occupazione europea di buona parte dei paesi islamici nella lunga storia del colonialismo. C’è un che d’inappagato nel rapporto tra l’islam e l’Europa, non tanto nella religione quanto tra gli arabi.
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Si vuole tollerante anche, soprattutto, a parere degli ebrei. Che, essendo massimi esperti di tolleranza e intolleranza, sono insindacabili. Ma sono anche i maestri della storia non storia, di quello che è che è quello che non è. Che è divertente. Ma poi tutti abbiamo bisogno di punti di riferimento, di bussole e punti cardinali. 

Italia – È sommersa dagli stereotipi “colti”. Della rivoluzione borghese che è protestante. Non toscana, per esempio, o lombarda - la borghesia dev’essere lontana per essere virtuosa. Dell’italiano moralmente corrotto perché cattolico. Dell'Italiano gesuitico, o anche “machiavellico”, del fine che giustifica i mezzi. Problema che venne sollevato non da Machiavelli ma nel Settecento, in Germania, da Hermann Busenbaum, per dire delle azioni che si possono fare o anche non fare, e in sé non sono né buone né cattive (lo spiega profusamente un libro che dovrebbe essere famoso, “Fini e mezzi” di A.Huxley, l’apologia più radicale del pacifismo). Mentre il gesuita è fra tutti gli ecclesiastici la figura meno italiana.

Galli della Loggia,in “L’Italia contemporanea 1945-1975”, a cura di V.Castronovo, 1976, p.427-429:  “Il nuovo e «moderno» universo antropologico dei ceti medi non ha alle sue spalle, riposto cioè nella società civile, alcun patrimonio di cultura, di tradizioni di libertà e di individualità che possa dirsi geneticamente capitalistico”. È possibile. Ma lo stesso Galli della Loggia mostra di ricredersi subito dopo.
Il patrimonio c’è, non può non esserci. Può essere buono o cattivo, solido e d’avvenire opure finito, o insufficiente. Ma non più vasta, a un censimento unitario, risulterebbe questo patrimonio nei feudi della democrazia, la Svizzera, gli Usa, la Gran Bretagna. Quella che alla borghesia manca in Italia è  il riconoscimento della sua superiorità etica. Per una sua insufficienza, è possibile. Ma a fronte di un populismo forte delle cosiddette subculture post-risorgimentali, la liberale, la cattolica, la socialista, la fascista, la comunista.
Qui è anche il problema della borghesia come classe dirigente, che angustiava già Leopardi e Cattaneo. È l’effetto del ritardo accumulato nell’Ottocento da un’Italia che si modernizzava in clima culturale (socialista, cattolico, fascista) anticapitalista e anche anti-industriale e anti-moderno. Da questo punto si vista l’Italia si può dire solo salvata casualmente in questo dopoguerra. Al rimorchio degli eventi (il problema della politica estera) per i vincoli atlantici e europei a cui si è subordinata con i negoziati per la pace, con la scelta di De Gasperi nel 1947. Ma il populismo di fondo persiste.

“Artistico, impulsivo, appassionato”, il trittico nel quale si racchiudeva trent’anni fa la personalità italica secondo gli studenti di psicologia sociale di Princeton fu posto da Giulio Bollati in apertura al suo prezioso “L’Italiano”.
“Manca il carattere”, osservava Bollati. Il cui saggio è nato come parte de “I caratteri originali”, il primo volume della Storia d’Italia Einaudi.

Lega – La Lega si avvia ai vent’anni di governo. È il più antico dei partiti in Parlamento. È il partito che più a lungo è stato al governo, con la destra e con la sinistra. È il fatto politico che più monopolizzato l’opinione pubblica in questi vent’anni. Per essere milanese, naturalmente, ma non solo. E non lascia niente – si dice lascia nel comune sentire che abbia fatto la sua stagione, la stessa Milano sembra rifiutarla.
La Lega al governo non ha migliorato nulla e peggiorato molto. Ha voluto l’Interno e la Rai, i due capisaldi del potere. Con esiti orridi. Una legge sull’immigrazione punitiva per le famiglie e per i datori di lavoro onesti. A favore del lavoro nero. Ha voluto i Forestali della Calabria, per spregio. E una rete e un tg della Rai a Milano per “puro” sottogoverno – mentre la milanese Mediaset lavora felice a Roma a costi dimezzati. Fino a imporre Veronica Pivetti invece di Stefania Sandrelli nella serie del “Maresciallo Rocca” – una milanese tra Viterbo e Civitavecchia.
Il voto plebiscitario che ha imposto per i Comuni, le Province e le Regioni, ha utilizzato per provinciali – ma costosi – culti della personalità. Di amministratori senza mai un’idea ma abili a catturare i titoli, con ogni bizzarria, e perfino con la rivoltella. Il federalismo fiscale, un buon principio di cui s’è appropriata, lo ha ridotto a idrovora a beneficio di questi “eletti dal popolo”.  

Scrivendo della Lega si è tentati di parlarne al passato, come di un episodio: c’è stato l’Uomo Qualunque, c’è stato il partito della Bistecca, c’è stata l’onorevole Ilona Staller, e c’è stata la Lega. Senza idee forti, anch’essa, il federalismo non è propriamente della Lega, anzi è molto democristiano, e liberale. E un folklore da raccapriccio. È anche un “vecchio” partito, il partito del Capo: l’ultimo congresso l’ha tenuto agli inizi, vent’anni fa, e ha cacciato Bossi per una congiura dei capi. Ma non senza traccia, seppure non piacevole: la Lega ha stabilito il linguaggio e il canone, nell’opinione e perfino nella letteratura. All’insegna del popolare che è trasandatezza e scurrilità.

astolfo@antiit.eu



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