È questo il
primo e più lungo dei “Two memoirs”, di cui Keynes volle la pubblicazione
postuma – subito tradotto nel 1951, l’anno della pubblicazione, in “Politici ed
economisti”, qui raggruppato col testo del titolo, a cura di Giorgio La Malfa, che li
contestualizza. S’intitola “Melchior”, ed è una prima redazione, narrativa, del
più ampio saggio, le “Conseguenze”, che Keynes avrebbe pubblicato a fine anno. I tedeschi sono grassi e brutti. A Treviri ai
primi del 1919, al primo approccio coi capi tedeschi per il negoziato di pace,
Keynes si domanda se non sia stata questa la causa della tragedia: “Quella
razza è stata penalizzata dal proprio aspetto fisico” – l’ebreo Melchior è
fisicamente “il solo depositario della dignità degli sconfitti”. Sullo sfondo
nella seconda o terza sessione, a Spa, della “malinconia teatrale e teutonica
dei pini neri”. Mentre gli
inglesi, anche i più sciocchi, conservano nell’aspetto fisico una capacità
d’intimidazione e quasi di convinzione. La Francia è presente nel fulgore della
sua immagine d’elezione, salotto esclusivo e grande cucina, per delinearne
“l’avida sterilità”.
C’è anche
Lawrence d’Arabia, che illustra vari progetti geopolitici, che nessuno ascolta.
Attorniato da principi arabi che recitano “capitoli del Corano”. Keynes era
politicamente scorretto, si direbbe oggi, e quindi riesce ancora di buona
lettura. Lo era anche nei confronti degli ebrei – dello stesso Melchior, di cui
a un certo punto dice: “In un certo senso ero innamorato di lui”. Di fronte al banchiere
avverte, lui snob e prossimo Lord, il peso delle “barriere sociali”, che invece
il banchiere non imponeva, e sente poi il bisogno d’insolentirlo, rappresentandolo
sciatto nel lussuoso albergo, col pitale pieno. Nell’intreccio narrativo, “Melchior”
è anche un saggio da scuola di diplomazia sulle tortuosità di una trattativa
minore e perfino semplice.
Il saggio del titolo, una memoria di
G.E.Moore e dei suoi “Principia ethica”, riesuma e spiega la forza giovanile del gruppo che
farà di Cambridge negli anni 1920 uno dei capisaldi del Novecento, con Moore,
Russell, lo stesso Keynes naturalmente, e il mai citato Wittgenstein – mentre
E.M. Forster si teneva discosto e scostante, e la presenza di D.H.Lawrence
viene liquidata con cattiveria, onorato e fobico, che tutto riduce a scarafaggi
– gli “occhi di Lawrence” Keynes dice “ignoranti e gelosi, collerici e ostili”. La forza era
della fiducia. Così, generica, senza una speciale scuola o religione. Bensì
religiosa, insiste Keynes, intessuta di costante “preghiera”, per quanto laica,
nell’ansia del perfettibile: “Mi comporto come se davvero esistesse un’autorità
o un criterio al quale mi posso appellare se grido abbastanza forte: forse sono
le tracce di un’atavica fede nell’efficacia della preghiera”. Senza rimedio,
“gli stati d’animo sono l’unica cosa che conta”.
Attorno a Moore
il gruppo coagula un’etica che è un’estetica: “Il nostro ideale era un Dio
pietoso”, che rafforza nel gruppo, incurante e impietoso, la libertà d’animo.
Che Keynes non sa spiegare a distanza, ma di cui gode ancora l’ebbrezza: “Era
un’aria di gran lunga più pura e più dolce di quella che si respirava con Freud
e Marx”. Da economista affermato, il saggio è del 1938, aborrendo
l’economicismo, la sterilità dell’epoca: “Eravamo i primi – se non gli unici –
della nostra generazione a uscire dal solco della tradizione di Bentham.
L’azione sociale come fine in sé, e non solo come triste dovere, non faceva più
parte del nostro ideale, al pari della vita attiva in genere – il potere, la
politica, il successo, la ricchezza, l’ambizione -, mentre tutto ciò che aveva
un fondamento economico contava meno nella nostra filosofia che in quella di
san Francesco d’Assisi, che almeno organizzava collette per gli uccelli”. Il
passo indietro per prendere slancio in avanti, ammicca Keynes sornione. Ma col
beneficio indubbio di “salvarci tutti da quell’estrema reductio ad absurdum del
benthamismo nota come marxismo”.
John Maynard
Keynes, Le mie prime convinzioni,
Adelphi, pp. 144 12
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