“La storia di una delle mie pazzie”, annota
la viaggiatrice. In appunti disordinati, riflessioni, immagini. Una storia
subito remota – “così lontano laggiù a Berlino, così lontano laggiù ad Assuan”.
Rifiutata anche se rivendicata. Per esempio nel sesso estremo, dove “risponde”
a tre corpi “con l’assenza di mistero”, col “gusto di carne diversa”, per smascherare
l’amore, “la sua mancanza di purezza, l’ipocrisia”: l’orgia è “un plurale
neutro”, e “mai più vorrei dormire sola con un uomo”, è un tentato assassinio
continuato. Un viaggio estremo nell’annientamento, da turista come tutti.
Scrittrice per filosofi – anche qui la
lettura è traviata dalla dotta postfazione di Clemens-Carlo Härle – Ingeborg
Bachmann è invece narratrice viva, anche se riflessiva, non sanguigna. “Verrà
la morte” è iperbole della famiglia perfino umoristica, un esilarante piccolo
mondo antico - che è l’humus più
propriamente tedesco che ognuno conosce, anche se da un secolo si vuole
ferrigno, non si sa se per le egemonie o per i sensi di colpa. Il “Deserto” è
un viaggio dispersione, alla maniera del citatissimo Rimbaud. Un’ossessione più
che un’esperienza vissuta, eccetto l’immagine della pazza alla stazione, del
pazzo sacro alla festa. Un tentativo di esorcismo del matrimonio fallito, un
peso troppo greve sulla delicata Ingeborg, bella d’intelligenza ancora più che
di tratti.
L’orgoglio,
e più ancora un tesoro di rettitudine e sapienza, umiliato, avvelenato, è la
parte che traluce dal racconto e ne fa il segreto. “Il tradimento non è quello
che intende la società borghese, infedeltà, poligamia, assenza, ma il non
adempiere promesse che l’altro a sua volta ha mantenuto con uno sforzo
estremo”. È “la violazione di un patto per tutta la vita”, quello “del segreto
che viene fondato tra due persone” e che è la sola cosa che ci può essere tra
due persone, “l’amore è un’illusione”. Un patto del resto “che è come quello
tra Dio e il diavolo”, che non può non sfociare “nel desiderio di distruzione”.
Ingeborg Bachmann, Libro del deserto
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